Tourn mi passa un pettine. Ohi, come fa male a pettinarsi. – Puzzi ancora, – dice Antonelli. – È il piede, – dico, – è il piede. – Avete un po’ di sale? – Anche il sale c’è, – dice Bodei. E fa bollire un po’ di acqua e sale. –
Sei congelato? – mi chiedono. Mi levo gli ultimi pezzi delle scarpe e gli stracci. Che odore! Sembra che sulla piaga vi siano dei vermi tanto è putrida e schifosa. Con l’acqua e sale mi lavo per bene, mi lavo anche i piedi.
Antonelli ha anche un pezzo di garza rimastagli del pacchetto di medicazione e mi fascio. Infine ritorno sotto il tavolo e rimango lí a fissare la parete dell’isba.
Tre giorni siamo rimasti lí. In quei tre giorni arrivò ancora qualche ritardatario. Ma ormai era finita. Il sergente furiere, congelato, partí il giorno dopo il mio arrivo per l’ospedale. Piú nessun ufficiale della compagnia era rimasto: Moscioni, Cenci, Pendoli, Signorini. Piú nessuno e neanche sottufficiali tranne il sottotenente e il sergente maggiore dei conducenti. Bosio, la recluta della vecchia squadra di Moreschi, quello che aveva la gamba ferita, lo accompagnai personalmente con un mulo e lo caricai su un camion che sgomberava i feriti. V’era un altro alpino del terzo plotone fucilieri, paesano di Tourn, che aveva un fazzoletto attorno alla testa. – Che hai lí? – gli chiesi. Si levò il fazzoletto e vidi che era senza un occhio; al suo posto restava un buco rosso. – È guarito ormai, – disse, – vengo in Italia con voi.
Uno di quei giorni morí il nostro colonnello Signorini. Dissero che dopo aver tenuto rapporto ai comandanti di battaglione e udito quel che rimaneva del suo reggimento si sia ritirato in una stanza dell’isba dove alloggiava e sia morto di crepacuore. Mi ricordai che un giorno, prima di andare al caposaldo sul Don ed eravamo a scavar tane, venne da noi. Bracchi mi chiamò e mi presentò al colonnello. Nel mettermi la mano sulla spalla un guanto s’impigliò in una stelletta della mia mantellina e si strappò. Ricordo il mio imbarazzo e il suo sorriso. E ora anche lui ci ha lasciati.
Andai anche al comando di reggimento per domandare di Marco Dalle Nogare. – È rimasto congelato, – mi dissero, – ed è partito per l’Italia.
Il tenente che aveva preso il comando della compagnia mi chiese il nome di quelli che meritavano di essere decorati. Diedi i nomi di Antonelli, di Artico, di Cenci, di Moscioni, di Menegolo, di Giuanin, di Tardivel, e di qualche altro.
Ecco, ora è finita la storia della sacca, ma della sacca soltanto. Tanti giorni poi abbiamo ancora camminato.
Dall’Ucraina ai confini della Polonia, in Russia Bianca. I russi continuavano ad avanzare. Qualche volta si facevano delle lunghe marce anche di notte. Un giorno, quasi perdetti le mani per congelamento perché mi ero aggrappato a un camion ed ero senza guanti. Vi furono ancora tormente di neve e freddo. Si camminava reparto per reparto e a gruppetti. Alla sera ci fermavamo nelle isbe per dormire e mangiare. Tante cose ci sarebbero ancora da dire, ma questa è un’altra storia.
Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera. Si camminava da tanti giorni; era il nostro destino camminare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi attraverso i quali si passava c’erano delle pozzanghere. Il sole scaldava e sentii cantare una calandra. Una calandrella che cantava primavera. Desiderai l’erba verde, sdraiarmi sull’erba verde e sentire il vento tra i rami degli abeti. E l’acqua tra i sassi.
Si era in attesa del treno che ci doveva portare in Italia; eravamo nella Russia Bianca nei dintorni di Gomel. La nostra compagnia, pochi ormai, era in un villaggio vicino alla foresta. Per arrivarci dovemmo camminare parecchie ore attraverso i campi che sgelavano. Quel luogo era famoso per i partigiani; nemmeno i tedeschi si fidavano ad andarci. Mandarono noi. Lo starosta del villaggio ci disse che doveva metterci uno o due per famiglia per non gravare sulla popolazione. L’isba dove mi accettarono era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia di gente giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la finestra la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po’ di paglia tutto il tempo che rimasi in quella capanna; sempre lí, sdraiato per ore e ore a guardare il soffitto. Nel pomeriggio c’erano nell’isba solo una ragazza e un neonato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lí vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola. Qualche pomeriggio venivano le sue amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello e filavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovoce, come se avessero timore di disturbarmi.
Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mulinelli rendevano piú dolci le voci. Questa è stata la medicina. Cantavano anche. Erano le loro vecchie canzoni di sempre: Stienka Rasin, Natalka Poltawka e i loro antichi motivi di balli. Guardavo per ore e ore il soffitto e ascoltavo. Alla sera mi chiamavano per mangiare con loro. Mangiavamo tutti nel medesimo recipiente con religiosità e raccoglimento. Ritornava la madre; ritornava il padre; ritornava il ragazzo. Solo alla sera ritornavano il padre e il ragazzo; si fermavano poco, ogni tanto guardavano dalla finestra e poi uscivano insieme sino alla sera dopo. Una sera che non vennero la ragazza pianse.
Vennero al mattino... Il bambino dormiva nella culla di legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il sole entrava dalla finestra e rendeva la canapa come oro; la ruota del mulinello mandava mille bagliori; il suo rumore sembrava quello di una cascata; e la voce della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore.
Preblic (Austria), gennaio 1944 - Asiago, gennaio 1947.
Edizione di riferimento:
in Il sergente nella neve (Ricordi della ritirata di Russia); Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1973