Stavo zitto e immobile. E loro stavano zitti e immobili.
Sentivo che guardavano nel buio come facevo io, le armi pronte. Avevo paura e quasi tremavo. Se mi avessero preso e portato via? Cercavo di dominarmi ma le vene della gola mi battevano forte. Avevo veramente paura.
Infine mi decisi: gridai, buttai le bombe che avevo in mano, e saltai nel camminamento. Per fortuna una bomba scoppiò. Sentii i russi che correvano e al bagliore vidi che si ritiravano nei cespugli piú vicini. Di là aprirono il fuoco con un’arma automatica. Nel frattempo erano giunti alcuni uomini di Pintossi. Dall’orlo della trincea incominciammo a sparare anche noi. Uno corse a prendere il mitragliatore. Si sparava e poi ci spostavamo di qualche metro. I russi della pattuglia rispondevano al nostro fuoco ma lentamente si allontanavano. Si fermarono poi alquanto lontani e spararono insistentemente con una pesante. Ma alla fine era freddo, loro ritornarono alle loro tane e noi tornammo alle nostre. Se avessero potuto prendere uno di noi forse sarebbero andati in licenza al loro paese. Alla mattina, con il sole, uscii a osservare le tracce che avevano lasciato. In verità erano piú lontane di quanto avessi supposto la notte, e fumando una sigaretta guardavo le loro postazioni al di là del fiume. Ogni tanto vedevo uno di loro che si alzava a prendere la neve dall’orlo della trincea. Faranno il tè, pensavo. Mi venne il desiderio di berne una tazzina. E li guardavo cosí come si guarda da un sentiero un contadino che sparge letame nel campo.
Qualche tempo dopo appresi che per il fatto di quella notte mi avevano proposto per una medaglia. Per che cosa l’avessi meritata non lo so proprio.
Ai primi di gennaio capitarono al nostro caposaldo, assieme alla corvè del rancio, tre soldati di fanteria. Erano meridionali della divisione Vicenza che i comandi superiori, chissà perché, avevano sciolta mandando gli uomini fra le compagnie alpine. Il tenente li assegnò alla squadra del Baffo.
La sera andai a trovarli. Due non volevano uscire di vedetta: non si fidavano, mi dicevano nel loro dialetto, e uno piangeva. Li feci accompagnare al posto di vedetta da due alpini e per convincerli che non c’era pericolo camminai in piedi fuori della trincea e scesi fischiettando fino ai rottami sicuro che i russi non avrebbero sparato. Pensavo di averli convinti, ma non vollero restare soli sicché dovetti appaiarli con un alpino. Il terzo, invece, era in gamba. Da borghese faceva il saltimbanco in un circo equestre, conosceva mille giochetti e nella tana teneva allegri tutti con quello che sapeva fare e con delle uscite che facevano ridere anche il Baffo. Gli alpini gli volevano un bene dell’anima. Battendosi sui denti con due pezzi di legno componeva persino delle tarantelle. Imparò subito a suonare in quella maniera la marcia degli alpini.
Quando raccontai la cosa a Moreschi mi rispose: Poshibel ‘na cavra de het quintai! – Perché Moreschi non credeva mai a niente e quando uno diceva che la sua ragazza era la piú bella di tutte, o che teneva nello zaino un pacchetto di sigarette da cinquanta, o che a casa aveva in serbo una damigiana di vino per quando sarebbe ritornato, usciva fuori improvvisamente a dire: – Possibile una capra di sette quintali? – ogni tanto raccontava la storia di quel tale che alla stazione di Brescia aveva fermato l’Orient-Express. Era in mezzo al binario e giocava alla morra con altri compagni e quando sentí spingere alle spalle, si girò seccato gridando: – Chi è qui che urta? – Ed era l’Orient-Express che veniva da Milano. – Ma, – soggiungeva Moreschi, – era un caporalmaggiore della pesante, con le spalle larghe cosí –. Poi guardava le reclute e ripeteva: –
Poshibel ‘na cavra de het quintai? – Schiudeva quindi le labbra e tra i baffi neri e la folta barba nera mostrava una fila di denti bianchi; i suoi occhi sotto le sopracciglia nere avevano un riso ingenuo e buono. Meschini, guardando anche lui le reclute e smettendo di mestolare la polenta, concludeva: – Non era caporalmaggiore dei mitraglieri, ma dei mortai –. E le reclute ridevano.
Verso il dieci di gennaio incominciarono ad arrivare, assieme al rancio, delle notizie poco buone. Tourn e Bodei, che erano andati alle cucine, ci dissero di aver sentito dai conducenti che eravamo accerchiati da diversi giorni.
Ogni giorno arrivava qualche novità a mezzo radioscarpa; gli alpini incominciavano a diventare nervosi. Mi chiedevano quale era la direzione che bisognava prendere per arrivare in Italia e quanti chilometri c’erano. Giuanin mi domandava sempre piú spesso: – Sergentmagiú ghe rivarem a baita? Anch’io sentivo che qualcosa non andava. I russi al di là del fiume avevano avuto il cambio e di notte lavoravano a tagliare cespugli e piante per aprire il campo di tiro alle loro armi. Quando ero solo, guardavo laggiú, a sud, dove il fiume girava e vedevo dei bagliori come lampi estivi. Ma erano tenui e pareva che venissero di là dalle stelle. Qualche volta, quando tutto taceva e v’erano soltanto le cose, sentivo il rumore lontano come di ruote che rotolassero su un acciottolato coperto d’acqua. Era un rumore che prendeva tutta la notte e la riempiva. Ma non dicevo nulla alle vedette, forse lo avevano già notato anche loro. I russi erano diventati piú attivi, giravo con il moschetto senza sicura sotto il braccio e con una bomba della marca migliore in mano.
La posta arrivava sempre e il rancio anche.
Una sera che ero nella tana del tenente a fumare una sigaretta ed eravamo soli, – Rigoni, – mi disse, – ho avuto disposizioni in caso di ripiegamento –. Non risposi nulla. Capivo che ormai era finita, veramente finita, ma non volevo ammetterlo. Sentivo il mio solito dolore allo stomaco. Capivo che cosa eravamo noi e che cosa volessero i russi. Tornando nella mia tana dissi forte: – Qualunque cosa succeda, ricordatevi, e mettetevelo bene in testa, che dobbiamo restare sempre uniti.
Il tenente voleva che si provassero tutte le armi automatiche e la mia tana era diventata un’officina. Moreschi, che da borghese faceva l’armaiolo in una fabbrica della Valtrompia, puliva, oliava, smontava e persino stemprava e ritemprava i molloni per renderli piú adatti alla temperatura, limava e batteva. Quando un’arma era pronta la si portava in un camminamento verso la squadra del Baffo. Io sparavo e Moreschi e il tenente ascoltavano ed osservavano come funzionasse. Non tutte le volte Moreschi era contento, scrollava la testa e stringeva le labbra.
Riportava allora l’arma nella tana e ricominciava da capo.
Quando erano pronte mi raccomandava di dire ai capisquadra di tenerle bene avvolte in una coperta per il freddo e in un telo da tenda per la sabbia sottile che filtrava nelle tane e penetrava dovunque. Cosí dopo tanto lavorare e raccomandare, i quattro mitragliatori, la pesante e i quattro mortai da 45 erano in perfetta efficienza.
Una di quelle ultime sere, una pattuglia russa di pochi uomini era sfilata sotto i nostri reticolati e, passando inosservata sotto la scarpata, giunse al posto di vedetta dove, per fortuna, si trovava Lombardi. Questi gettò delle bombe a mano e la terza scoppiò, tirò qualche fucilata e i russi, vistisi scoperti, ritornarono indietro. Appena udii la bomba e le fucilate corsi da lui. Come se mi parlasse di vacche disse: é stata qui una pattuglia russa: uno trascinava una specie di carriola e lasciava dietro di sé un filo. Saranno stati qui a due metri –. Io stavo zitto e non volevo crederci e dopo un po’ passai dalle altre vedette. La mattina dopo, quando venne il sole, vidi le tracce sin dove mi aveva indicato Lombardi e mi vergognai di non avergli creduto. Era cosí tranquillo e impassibile!
Qualcosa non andava proprio: si viveva tutti come in un incubo e il tenente riposava poco: era sempre in giro da una postazione all’altra, di giorno e di notte. Quando una sera ci parve di sentire dei rumori sotto la nostra scarpata stette steso sulla neve con due bombe pronte, finché quasi si assiderò. E non c’era nulla: forse una lepre o un gatto.