Un alpino della mia vecchia squadra, A..., non ne poteva piú; era da poco ritornato dall’ospedale, aveva la scabbia e voleva a tutti i costi fare il cuciniere. Un mattino, ero entrato nella tana e mi ero appena sdraiato sulla paglia, egli fece girare lentamente la sicura del mio moschetto, che avevo appeso ad un chiodo su un palo di sostegno e, mentre parlava con i suoi compagni, fece partire il colpo: in direzione della canna teneva il piede. Però aveva calcolato male e si forò soltanto la sporgenza della suola. Non dissi nulla, solo lo guardai e gli feci capire che avevo intuito cosa intendesse fare. Il giorno dopo, mentre era solo e stava uscendo per andare nella postazione a fare il suo turno di vedetta, cosí raccontò, partí un colpo dal suo fucile che gli passò da parte a parte un piede. Il tenente lo fece trasportare all’ospedale, nessuno immaginò la verità. Due giorni dopo, durante l’attacco dei russi, parlai di questo al tenente. – Vedete, – gli dissi, – non poteva piú restare con noi; aveva troppa paura –. Ora quest’alpino vivrà tranquillamente al suo paese e si prenderà la pensione.
Il caporale Pintossi era forse il migliore di tutti noi: che bravo cacciatore! E che passione! Sembrava piccolo perché era largo di spalle e aveva un po’ di pancia. Sorrideva sempre ed aveva due occhi piccoli ed acuti. Trasandato nel vestire, portava il fucile con la disinvoltura e la familiarità del cacciatore. Calmo e flemmatico, non lo vidi mai irritato e non lo sentii mai bestemmiare. Ed era sempre presente, pacifico con il suo inseparabile fucile, nel momento del bisogno. E che bravo tiratore! Non dava quasi mai ordini ai suoi uomini ma faceva, e gli alpini della sua squadra facevano nel suo esempio. Con lui mi trovavo sovente a parlare di caccia. – Ai contorni, – diceva, – è il piú bel tiro e la piú bella caccia. Quando ritorneremo in Italia ci andremo assieme. A casa ho un bracco che è un fenomeno –. Faceva schioccare le dita: –
Dik si chiama. Che bella bestia –. Ecco, allora diventava triste, quando parlava del suo cane.
L’altro caporale della squadra era Gennaro. Chissà di che paese era. Meridionale certamente. Maestro o ragioniere o qualcosa di simile, frequentò un corso ufficiali.
Ma non lo avevano fatto idoneo e cosí faceva il caporale.
Parlava poco, era timido con gli alpini, e questi, se qualche volta lo canzonavano, provavano per lui rispetto ed affetto. Non aveva certamente un cuor di leone ma la sua personalità, senza farsi notare, si comunicava a chiunque gli vivesse vicino. Nel suo gruppo non succedevano mai storie, per la spartizione del rancio o per il turno di vedetta o per quello di lavoro. Il suo mitragliatore funzionava sempre. Quando c’erano allarmi o pattuglie russe che molestavano, era tra i primi che uscivano dalla tana per correre nel posto minacciato. Eppure, ne sono certo, dentro di sé tremava come una foglia di betulla.
Venne infine una mattina che i russi, prima dell’alba, incominciarono a sparare con i mortai e l’artiglieria sul caposaldo di Sarpi, poi spararono a Cenci, allungarono il tiro verso le cucine e poi su al comando di compagnia dietro il nostro caposaldo. Pensavo che addosso a noi non potevano sparare perché eravamo troppo vicini a loro. Gli alpini, nella tana, si guardavano muti, seduti attorno alle stufe, l’elmetto calcato sulle orecchie, il fucile tra le ginocchia, le tasche e la cacciatora piene di bombe a mano sotto il camice bianco. Tentavo di scherzare ma il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e sporche. Nessuno pensava: «se muoio»; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: «quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?»
Le nostre artiglierie incominciarono a rispondere al fuoco dei russi e non ci sentivamo piú soli. I proiettili passavano sopra le nostre teste e pareva che alzando una mano si potessero toccare. Andavano a scoppiare sul fiume davanti a noi, sulle postazioni dei russi e nel bosco di roveri. Nei nostri ricoveri filtrava giú la sabbia fra i pali e dall’orlo delle trincee franava la neve. Un paio di colpi arrivarono corti sui nostri reticolati e vicino alle nostre tane. Lasciai fuori soltanto due vedette nelle postazioni coperte e il tenente mandò ad avvisare di allungare il tiro. Appena giorno l’artiglieria smise di sparare e i primi scaglioni di russi incominciarono a passare il fiume. Mi aspettavo un attacco davanti a noi, invece forzarono a sinistra, piú in giú del caposaldo di Cenci. Forse, penetrati di là, avrebbero voluto entrare nella valletta che ci divideva, e inoltrarsi poi verso le cucine e i comandi.
Laggiú, ove attraversavano, il fiume era piú largo; nel mezzo c’era un’isoletta coperta di vegetazione e la riva dalla nostra parte era paludosa, tutta a insenature, e coperta da alte erbe secche e da cespugli. Non vi era nessuna traccia di lavoro umano. I russi uscirono improvvisamente dal bosco di querce e trovandosi in mezzo a quel biancore si saranno stupiti battendo le palpebre. Non gridarono, spararono delle brevi raffiche correndo curvi verso l’isolotto nel mezzo del fiume. Qualcuno tirava una slitta. Era una mattina limpida alla luce nuova del sole e guardavo i russi che correvano curvi sul fiume gelato. I mitragliatori di Cenci e le pesanti, in postazione da quelle parti, incominciarono a sparare. Qualcuno nel mezzo del fiume cadeva sulla neve. Raggiunsero l’isolotto, si fermarono un poco a prendere fiato e ripresero a correre verso la nostra riva. Dei feriti ritornavano lentamente verso il bosco da dove erano usciti. Gli altri raggiunsero la nostra riva e si buttarono fra i cespugli e le insenature. Si defilarono cosí dal tiro dei mitragliatori di Cenci che avevano sparato fino allora ma non dalle nostre armi. Stavo con il tenente ad osservare i gruppetti immobili tra i cespugli. Il tenente mandò a prendere la pesante che era dalle parti del Baffo. Postammo l’arma sotto i reticolati. – Saranno ottocento metri, – disse il tenente. Puntai e sparai qualche caricatore. Ma il tiro non era efficace perché l’arma sulla neve era instabile; ogni tanto s’inceppava e in quel budello stretto non era agevole lavorarci attorno. Pure le pallottole laggiú arrivarono perché vedemmo i russi nascondersi tra i cespugli. Il tenente era serio, quasi triste.
Passava il tempo e i russi non riprendevano l’azione, ogni tanto qualcuno usciva e correva per pochi metri e tornava poi a nascondersi. Improvvisamente incominciarono a cadere laggiú delle bombe di mortaio. Scoppiavano cosí precise che parevano messe lí con le mani. Erano i mortai da 81 di Baroni, e Baroni non sciupava né bombe né vino. Cosí finí il primo attacco russo. Non fu un vero e proprio attacco; forse i russi credevano che fossimo molto piú giú di morale e pensavano che, sapendoci accerchiati, avremmo abbandonato i caposaldi al primo accenno di attacco. Quel senso di apprensione e di tensione che era in noi non ci aveva ancora lasciato. Era come se un gran peso ci gravasse sulle spalle. Lo leggevo anche negli occhi degli alpini e vedevo la loro incertezza e il dubbio di essere abbandonati nella steppa: non sentivamo piú i comandi, i collegamenti, i magazzini, le retrovie, ma soltanto l’immensa distanza che ci separava da casa, e la sola realtà, in quel deserto di neve, erano i russi che stavano lí davanti a noi, pronti ad attaccarci.
«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità e cercavo di rincorarmi parlando di ragazze e di sbornie. Tra noi v’erano ancora di quelli che scrivevano a casa: «Sto bene, non preoccupatevi per me, sono il vostro...» ma mi guardavano con occhi mesti e indicando l’ovest mi chiedevano: – Da che parte dovremmo andare in caso di...? Che cosa prenderemmo con noi? – Pure nessuno aveva detto loro come stessero le cose, e nessuno immaginava, ne sono sicuro, quello che ci avrebbe aspettato. Ma sentivamo quello che sente un animale quando fiuta l’agguato.