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Alla sera il tenente mi chiamò. – Abbiamo avuto l’ordine di ripiegare –. Cosí mi disse, ripiegare. – Siamo circondati: i carri armati russi sono arrivati al comando di corpo d’armata –. Il tenente mi porse la borsa del tabacco, ma non ero capace di arrotolarmi una sigaretta e me la fece lui.

Verso sera arrivò il rancio e il pane; come sempre era tutto gelato.

I russi ripresero a sparare con l’artiglieria e i mortai.

Incominciava ad essere buio e tra poco sarebbe sorta la luna. Nelle nostre case, in quel momento, erano attorno alla tavola.

Rimanevo poco ora nella tana; ero sempre nelle trincee sulla scarpata del fiume con le bombe e il moschetto.

Pensavo a tante cose, rivivevo infinite cose e mi è caro il ricordo di quelle ore. C’era la guerra, proprio la guerra piú vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano piú vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.

Con il tenente notai davanti a noi rumori e movimenti insoliti. Facemmo postar fuori il mitragliatore e portar la pesante fra le macerie di una casa un po’ arretrata, per aver maggior campo di tiro. Gli alpini, silenziosi, stavano nella trincea. Ora avrebbero attaccato proprio noi.

Avrebbero funzionato le armi con quel freddo? Di là si sentiva rumore di motori. Poi ci fu un silenzio strano, quel silenzio che precede qualcosa di grave. Solo le cose e l’ansia del momento c’erano.

Si sentí la voce di uno che incitava e uscirono all’assalto. Salivano sulla scarpata del fiume, si sedevano sulla neve e poi scivolavano sulla riva. Le nostre armi aprirono il fuoco. Tirai un sospiro di sollievo: funzionavano. I mortai da 45 di Moreschi sparavano davanti ai nostri reticolati e le bombette scoppiavano con rumore strano e ridicolo. Quando sentii passare sopra le nostre teste le bombe dei mortai da 81 del sergente Baroni tirai un altro sospiro di sollievo. Sentivo che Baroni guardava giú verso di noi dando i dati di tiro con calma ai suoi uomini e mi pareva che dicesse: «Sta’ tranquillo, sono qui anch’io». E Baroni non sciupava nemmeno parole.

I russi correvano, si gettavano a terra, si rialzavano e riprendevano a correre verso di noi. Molti non si alzavano piú; i feriti chiamavano ed urlavano. Gli altri gridavano: Urrà! Urrà! e venivano avanti. Ma non riuscivano ad arrivare sotto i nostri reticolati. Mi sentii sicuro, allora; avrei potuto ancora vivere nella mia tana al caldo e leggere lettere azzurre. Non pensavo ai carri armati che già erano arrivati al comando di corpo d’armata, né quanti chilometri c’erano per arrivare a casa. Mi sentivo tranquillo e sparavo con il moschetto dall’orlo della trincea mirando calmo a quelli che si avvicinavano di piú. E allora incominciai a cantare in piemontese «All’ombretta di un cespuglio – bella pastora che dormiva». Chizzarri, l’attendente del tenente che mi stava a fianco, mi guardò sorpreso smettendo di sparare; poi ricominciò e s’uní a cantare con me. Al chiarore della luna indovinai i visi degli alpini che si spianavano e sorridevano. Vedevo che sparavano calmi, e l’alpino dalla barba secca e rada cambiava, bestemmiando, la canna arroventata del fucile mitragliatore e riprendeva con foga a sparare. I russi si convinsero subito che da noi era impossibile passare e si spostarono piú a sinistra riuscendo ad infiltrarsi nella valletta tra noi e Cenci. Si nascondevano tra i cespugli e le ombre, era difficile scorgerli. Lí vi doveva essere un campo minato ma nessuna mina scoppiò. Baroni spostò il tiro. Qualche alpino ritornò nella tana a prendere cartucce e bombe a mano. Ma avevamo ormai esaurite le munizioni. Durante l’attacco, quando i russi erano giunti sotto i nostri reticolati, avevo gettato quasi una cassa di bombe a mano. Ma poche scoppiavano; sprofondavano nella neve senza rumore. Allora pensai che forse sarebbero scoppiate levando tutte e due le sicurezze prima di lanciarle e feci cosí sebbene fosse pericoloso.

Ritornò il silenzio. Tra noi e Cenci si sentiva qualche breve raffica di mitra.

Sul fiume gelato vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava: –

Mama! Mama!

Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco sulla neve e piangeva. – Proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma.

La luna correva fra le nubi; non c’erano piú le cose, non c’erano piú gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mama! Mama! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre piú lentamente, sulla neve.

Ma i russi ricominciano a uscire dal bosco di roveri.

Salgono sulla scarpata e ridiscendono giú sul fiume. Son piú guardinghi di prima; non gridano, sembrano timidi.

Riprendiamo a sparare. Solo che questa volta non vengono per ammazzarci: vogliono solo raccogliere i feriti rimasti sul fiume. Non sparo piú, allora. Grido: – Non sparate! Raccolgono i feriti; non sparate!

Si stupirono i russi a non sentire piú le pallottole che li cercavano: si fermarono increduli, si alzarono in piedi, si guardarono attorno. Gridai: – Non sparate! – Raccolsero in fretta i loro compagni e li caricarono sulle slitte.

Correvano curvi, ogni tanto si alzavano e guardavano verso di noi. Li portarono sino alla scarpata e li trascinarono su nelle loro trincee. Sul fiume gelato la neve era tutta calpestata. Portarono via anche i morti, tranne quelli ch’erano sotto i nostri reticolati.

Ora tutto era finalmente finito. Finito? Chizzarri venne di corsa verso di me. – Vieni, vieni presto dal mio tenente, – diceva. – Sta male, ti vuole, vieni –. Correva nella trincea davanti a me e lo sentivo singhiozzare. –

Cos’è? Ferito? – gridavo. – No, corri, – diceva Chizzarri. Entrammo nella tana della squadra di Pintossi e il tenente Moscioni stava disteso su un pagliericcio. Al chiarore del lume ad olio lo vedevo pallido e rigido; stringeva i denti. Indossava il camice bianco sopra la divisa. Mi inginocchiai al suo fianco, gli presi una mano e strinsi forte. Aprí gli occhi: – Sto male, Rigoni, – disse.

Parlava piano, in un soffio. Gli feci bere un po’ di cognac che aveva Chizzarri. Nella tana tre alpini silenziosi guardavano stringendo tra le mani la canna del fucile. –

Non sono capace di rimettermi in piedi, – riprese. –

Prendi il comando del caposaldo, sta’ attento che quando la luna va sotto le nubi i russi passano il fiume. Non farmi portar via, lasciami qui. Ho ancora la pistola? – e cercava la fondina. Ero chino sopra di lui e non ero capace di parlare.

– Sta’ attento: sei tu, Rigoni? I russi passano il fiume.

In caso di ripiegamento lasciami qui. Ho ancora la pistola. Avrai ordini dal capitano; non andartene prima –. Era rigido e continuavo a stringergli la mano senza parlare.

Ma poi riuscii a dirgli qualcosa. Mi alzai in piedi. – Prendete la barella e portatelo via, – dissi rivolgendomi agli alpini. Non voleva il tenente e faceva cenno di no con la testa. – Ho ancora la pistola, – diceva piano. Gli alpini non sapevano a chi obbedire. – Comando io, ora, qui: andate per piacere –. E poi a Chizzarri: – Dàgli tutto il cognac che c’è, accompagnalo e lasciagli le cose piú necessarie, e ritornate subito –. Piú nessuno parlò. Le ombre si allungarono sulle pareti della tana. Chizzarri, in un angolo, frugava in uno zaino e singhiozzava. Il lume ad olio rendeva la tana piú raccolta; sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fidanzati, fiori e paesi fra le montagne.

Dietro una vecchia busta che avevo in tasca scrissi dell’accaduto al capitano e mandai un alpino al comando di compagnia: – Digli anche che abbiamo bisogno urgente di munizioni. – Vai, Rigoni, – mi sussurrò il tenente, – i russi passano il fiume.

Ritornai fuori. Appoggiata alla trincea c’era la barella ancora macchiata del sangue di Marangoni.