Si sparse la voce per il caposaldo che il tenente era andato via. Venivano da me i capisquadra a chiedere: –
Che facciamo ora? – Quello che avete fatto sino adesso,
– rispondevo. – State tranquilli, verrà qualche altro ufficiale –. Non mi passò nemmeno per la testa di dire:
«Non s’allontani nessuno», tanto ero sicuro che nessuno se ne sarebbe andato senza un ordine. Minelli mi disse che Lombardi era morto di schianto nella trincea con una pallottola nella fronte mentre sparava in piedi con il mitragliatore imbracciato. Ordinai di farlo portare fino alle cucine, poi avrebbe pensato il cappellano. Moreschi mi fece presente che non aveva piú munizioni per i mortai. Il Baffo era tranquillo, da laggiú non vedevano nemmeno i russi venire all’attacco; non spararono nemmeno un colpo. Feci portare il suo mitragliatore nel settore della squadra di Pintossi che era il punto piú esposto e che doveva essere perciò il piú munito. La pesante non funzionava tanto bene e il Rosso, capoarma, si era preso un calcio dal tenente perché non la curava. Ordinai di smontarla, pulirla, sparare qualche raffica ogni tanto e tenerle sotto un elmetto di brace. Ma anche la pesante era ormai senza munizioni.
– Che cosa aveva il tenente? – mi chiedevano i capisquadra. – È stato preso dal freddo, – rispondevo, – dal sonno e dalla fatica –. Da tanti giorni dormiva poco e non riposava, era impossibile che potesse resistere a lungo. – Vada a dormire, – gli dicevo. – Riposi; vede? è tutto tranquillo ora –. Ma non voleva. Ora le armi, ora le postazioni, ora gli uomini, ora la pattuglia russa. Non voleva. È caduto sfinito come un mulo. – Era come essere di ghiaccio, – mi disse poi in Italia, – non sentivo piú le gambe, le braccia, il corpo, non sentivo piú niente. Mi pareva di essere solo testa e poco anche di questa. Era terribile.
Il capitano mi mandò giú un biglietto. Scriveva che sarebbe venuto un altro ufficiale a prendere il comando del caposaldo e che mi avrebbe mandato le munizioni.
Ricominciammo a sparare. I russi volevano passare il fiume a tutti i costi. Spararono addosso a noi anche con i mortai e me ne accorsi quando sentii sopra il mio capo uno schianto, qualcosa battermi sull’elmetto e sabbia e neve e fumo entrarmi negli occhi. Subito non mi resi conto che cosa fosse accaduto ma poi sentii chiamare aiuto vicino a me. Un alpino della squadra di Pintossi aveva il braccio spezzato e la parte inferiore penzolava giú come se non facesse piú parte del suo corpo. Con uno spago che avevo in tasca legai stretto sopra la ferita per arrestare il sangue che usciva a fiotto. – Il mio braccio! Il mio braccio! – diceva e urlando si teneva con la mano sana il braccio penzolante. – Sei fortunato, gli dicevo mentre legavo, – è una cosa da poco e tra quindici giorni sarai a casa. – Sí? – chiedeva lui, – andrò a casa? –
Sí, potevamo restare morti tutti e due. Ora vai giú alle cucine, non posso farti accompagnare; vai giú solo, c’è bisogno di gente qui. Fa’ presto; dammi le tue cartucce,
– e gli vuotai le giberne. Si allontanò lagnandosi per il camminamento: – Il mio braccio! il mio braccio! – e cercava di correre nel buio.
Allora mi resi conto che una bomba era scoppiata tra noi due sopra le nostre teste. Il fucile dell’alpino era rotto lí a terra. Avevo le mani rosse di sangue e il camiciotto sporco di terra e sangue.
Dopo un poco ritornò il silenzio. Ma non ero tranquillo perché un certo numero di russi erano riusciti ad infiltrarsi tra noi e Cenci. Ed erano pericolosi; potevano aggirarci e penetrare nel caposaldo dalle spalle. Con un mitragliatore e qualche uomo mi portai piú indietro e a sinistra verso Cenci. E provai paura e apprensione quando vidi che, da quella parte, i reticolati avevano dei varchi. Ma invece di venire da noi i russi cercavano di penetrare in profondità e sentimmo che sparavano verso il fosso anticarro all’imboccatura della valletta che portava alle retrovie. Questa volta, pensavo, vanno a svegliare gli imboscati. Ma gli imboscati rimasero tranquilli ancora un altro giorno perché la squadra esploratori della nostra compagnia, al comando del tenente Buogo, andò incontro ai russi.
Erano in gamba gli esploratori, tutti dello stesso paese, Collio Valtrompia, e tutti parenti fra di loro, o per lo meno uno faceva all’amore con la sorella dell’altro. Avevano una parlata tutta particolare e gridavano sempre. A quel modo scesero incontro ai russi. E allora, nella notte fredda, dopo una raffica di mitra russo sentimmo Buogo che chiamava: – Cenci! Cenci! Tenente Cenci! – E Cenci, dal suo caposaldo, gridare: – Buogo! Di’, Buogo! come si chiama la tua fidanzata? – E ripeteva: – Come si chiama la tua fidanzata?
Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli alpini che erano con me. Il nome di una donna, di una fidanzata, il nome italiano di una ragazza gridato cosí nella notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti italiani! – Di’, Buogo, come si chiama la tua fidanzata? Buogo! Buogo! come si chiama? – E gli alpini ridevano.
Diavolo! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed elegante. Altro non poteva essere la fidanzata di un tenente, e cosí pareva anche dal nome. Immaginavo i due tenenti a farsi le confidenze nella tana guardando le fotografie. Ma un nome gridato cosí nella notte! Avevo capito perché Cenci voleva sapere il nome della ragazza.
E tutti quelli che avevano sentito ridevano. Anche i russi di certo dovevano averlo capito. Diavolo! Piantiamo qui tutto, ci sono tante belle ragazze e vino buono, no, Baroni? Loro hanno le Katiusce e le Maruske e la vodka e campi di girasole; e noi le Marie e le Terese, vino e boschi d’abeti. Ridevo, ma gli angoli della bocca mi facevano male e impugnavo il mitragliatore.
Sparavano laggiú tra i cespugli e sentivo chiaramente le voci degli esploratori gridare che il tenente Buogo era stato ferito ad una gamba e che lo portavano via.
Gridavano nel loro gergo: – Sono qui! Venite! Ci sono anche donne –. Parevano una compagnia di cento ed erano forse tredici. Gettavano bombe a mano e poi urlavano: – Li abbiamo presi, vi sono due donne, venite! –
Bestemmiavano e battevano i cespugli fra noi e Cenci.
D’un tratto mi accorsi che incominciava l’alba. Una lepre mi passò davanti correndo e andò a nascondersi tra l’erbe secche della riva. Un portaordini venne ad avvisarmi che il plotone arditi del Morbegno sarebbe venuto in nostro aiuto per eliminare quei russi che ancora erano rimasti fra noi e Cenci. Mi raccontò che i nostri esploratori avevano preso poco prima due donne russe che erano venute all’assalto in pantaloni e mitra. Poco dopo sentii gli arditi del battaglione Morbegno. Che lingere questi contrabbandieri comaschi! Si chiamavano tra loro, facevano chiasso, sparavano, bestemmiavano.
Quasi come i nostri esploratori. – L’è qua! l’è qua! – gridavano e gettavano bombe a mano. Incominciò a venir su il sole dietro il bosco di roveri. Tante mattine l’avevo visto sorgere e allora le nostre tane e le loro fumavano tranquille come i camini di un villaggio tra le alpi o tra la steppa; e tutto era tranquillo e la neve sul fiume intatta, senza macchie di sangue o tracce di uomini.
Sentivo gli occhi che non volevano stare aperti. Da qualche giorno non mi lavavo e avevo una crosta sul viso. Le mani, sporche di sangue e terra, odoravano di fumo e desideravo una mattina come le altre per poter lavarmi il viso e andare a dormire nella tana. Erano due notti e due giorni che non dormivo: e ora non c’erano munizioni, gli alpini erano stanchi, la posta non arrivava, il tenente non c’era. Avevo sonno, fame, e restavano tante cose da fare. Ma avevo sigarette.
Mandai un portaordini dal capitano a dire che avevo bisogno assoluto di munizioni per tutte le armi, e bombe a mano, tante. Feci raccogliere le cartucce inesplose che saltavano via dai mitragliatori quando s’inceppavano per spararle con i fucili.
Gli alpini stanchi, si buttavano sulla paglia delle tane e russavano con il fucile in mano e le bombe nelle tasche; dormendo qualcuno saltava in piedi gridando e subito ripiombava giú a russare. Lasciai fuori solo tre vedette, ma non potevo dormire. Arrivarono le munizioni.