Le portarono a spalla i conducenti e appena messe giú le casse si allontanarono in fretta.
Stavo con una vedetta a guardare i cadaveri dei russi che erano rimasti sul fiume e osservando cosí, nel sole del mattino, mi accorsi di due russi che stavano nascosti poco lontano da noi dietro un rialzo del terreno sulla riva del fiume. Dopo un po’ che li osservavo si mossero; uno sorse in piedi e di corsa tentò di passare di là. Mirai.
Mi pareva di vederlo davanti alla canna del moschetto e tirai. Lo vidi cadere di schianto sulla neve. L’altro suo compagno, che si era alzato in piedi per seguirlo, tornò a nascondersi. Osservavo con un binocolo il russo caduto sul fiume.
Lo vedevo immobile. Ma perché non aveva aspettato la notte per passare di là? Anche la vedetta osservava.
D’un tratto esclamò: – Si muove! – E lo vidi scattare come un babau e correre verso l’altra riva – Me l’ha fatta, – dissi forte, e risi. Ma la vedetta prese il mitragliatore della postazione e mezzo ritto sulla trincea sparò. Vidi il russo cadere nuovamente, ma non come prima. Si contorceva e si trascinò per qualche metro, infine si fermò con un braccio teso verso la sponda ormai vicina. L’altro suo compagno che era rimasto dalla nostra parte ritentò il passaggio ma una raffica di mitragliatore lo costrinse a nascondersi nuovamente. Pensavo: «Aspetterà la notte, ora; gli converrebbe». Avrei voluto gridarglielo.
Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece. Allora sentii un gran boato e tremare la terra sotto i piedi. La neve franava dalla trincea, aratri di fuoco solcavano il cielo sopra di noi e una colonna alta di fumo saliva dall’altra riva e oscurava il sole: vicino alla terra era gialla e piú su nera.
Negli occhi della vedetta vidi il mio terrore, mi agitavo nello spazio di pochi metri dentro la trincea. Ma la mia paura non sapeva dove andare né cosa fare. Mi guardavo attorno e non ero capace di ragionare. La vedetta era il mio specchio. Poi sentii e vidi gli scoppi levarsi dietro il caposaldo di Cenci; tanti, uno vicino all’altro e nel medesimo istante. Questa, riuscii a pensare, è la Katiuscia a settantadue colpi. Diavolo che accidente d’ordigno!
Sparò altre due volte e ogni volta trattenevo il fiato. Finalmente la nostra artiglieria incominciò a rispondere.
Poi ritornò il silenzio.
Aspettavo il nuovo ufficiale che sarebbe venuto a prendere il comando del caposaldo. Avrei voluto dormire un po’, almeno un’ora. Intanto passava il tempo. Potevano essere le nove, mezzogiorno, le due, non sapevo; il quindici o il sedici o il diciassette di gennaio.
Udii la voce di uno che incitava parlando forte in russo.
Capii qualche parola: patria, Russia, Stalin, lavoratori.
Mandai subito una vedetta per le tane a far uscire gli uomini con tutte le armi. Uscivano in fretta imprecando; con gli occhi pieni di sonno, socchiusi alla luce del sole. Odoravano di fumo. Dissi: – Non sparate se prima non vi do l’ordine; tenetevi pronti –. Era ritornato il silenzio; di là la voce s’era taciuta; di qua tutti erano pronti con le armi puntate. Erano cessati i brontolii, le bestemmie, i passi affrettati, i rumori degli otturatori. I russi sorsero in piedi sull’orlo del bosco, vennero sulla scarpata e tutto era ancora tranquillo. Non un colpo di fucile, non un grido. Erano stupiti di quel silenzio. Forse ci credevano già partiti? Si sedettero sulla neve e scivolarono sulla riva del fiume. Ma quando i primi furono ai piedi della scarpata: – Spara! – gridai all’alpino che vicino a me imbracciava il mitragliatore. Una breve raffica, poi improvvisamente tutte le armi spararono: i quattro mitragliatori, la pesante, i trenta fucili, i quattro mortai di Moreschi, i due di Baroni. Tutte le pallottole battevano dove la scarpata si raccordava al fiume e appena i russi mettevano i piedi sulla riva, dopo la scivolata con i1 sedere, vi rimanevano cuciti contro. Quelli che erano rimasti sull’orlo del bosco e in piedi sulla scarpata rimanevano indecisi e infine ritornavano al riparo nelle loro trincee. Le armi smisero di sparare, ma sulla riva del Don i gemiti e le implorazioni d’aiuto continuavano. I piú tenaci tentavano risalire la riva per ritornare al sicuro e qualcuno vi riusciva. Si sentì nuovamente la voce di prima.
Che diceva? Forse di vendicare i compagni caduti sulla neve o forse dei villaggi distrutti. Riapparvero con piú decisione. Ricominciammo a sparare. Non si fermarono questa volta, né ritornarono indietro. Molti ne caddero sotto la scarpata, molti. Gli altri venivano avanti gridando: –
Urrà! Urrà! – ma pochi riuscivano ad avvicinarsi ai nostri reticolati. Sparavo con il moschetto a quelli che mi sembravano piú impetuosi e che correvano davanti a tutti. Vi erano di quelli che fingevano di essere morti: restavano immobili sul fiume e poi quando non erano piú osservati sorgevano in piedi e riprendevano a correre verso di noi.
Uno si serví di questa astuzia per tre o quattro volte finché, giunto sotto la nostra trincea, fu veramente colpito.
Cadde con la testa e le spalle sprofondate nella neve. Una gamba in aria continuava a fare il movimento dell’arrotino sempre piú lentamente sino a fermarsi.
Doveva essere terribile passare il fiume, camminare cosí sulla neve alla luce del sole, senza il minimo riparo tra pallottole e bombe come tempesta. Solamente i russi potevano osare questo; ma non era possibile arrivare sino a noi. Smisero e ritornò la quiete. Sul fiume la neve era piú rossa e calpestata di prima e piú numerosi erano quelli rimasti sulla neve con le scarpe al sole. Ritornai nella tana. Stavo attorno alla stufa e guardavo il fuoco tenendo il moschetto fra le ginocchia. Gli alpini parlavano dell’attacco che avevano appena finito di respingere.
– Che hai lí, sergentmagiú? – mi chiese Pintossi. E indicò sul mio moschetto il punto dove era attaccata la baionetta ripieghevole. Vidi incastrata una pallottola di mitragliatrice. – L’hai scampata bella, – mi disse Pintossi.
Ricordai allora che durante l’attacco avevo sentito un colpo secco mentre, inginocchiato sulla trincea, osservavo e tenevo il moschetto davanti alla fronte. Gli alpini attorno al fuoco si passavano il moschetto ed osservavano:
– L’hai scampata bella, quando sarai a casa dovrai mettere un quadretto alla Madonna. – Anche due ne puoi mettere. – Se non è la tua ora non parti. – Già è destino...
Levai la pallottola e me la misi nel taschino della giubba dicendo: – Quando sarò a casa ne farò un anello per la morosa.
Finalmente venne il tenente Cenci. Fui contento di vederlo e come si avvicinò gli chiesi: – Come si chiama la tua fidanzata? – Rise e poi guardandomi e vedendomi sporco di sangue disse: – Ma Rigoni, sei ferito? – No, – dissi, – non è mio –. Poi riprese: – Poteva anche essere un russo che mi chiamava stanotte e per questo chiesi a Buogo come si chiamasse la sua fidanzata. Un russo non poteva sapere il nome della ragazza di Buogo. È stato ferito a una gamba da una pallottola che gli ha spezzato l’osso. Hai sigarette, Rigoni? – E me ne porse una. Girammo un po’ per le trincee ma poi entrammo nella tana della squadra di Pintossi. – Non è rimasto nessun russo di qua, Rigoni, – disse Cenci (ma io sapevo che ce n’era ancora uno), – ed abbiamo preso anche due donne. Erano sui quarant’anni e portavano i pantaloni e il parabellum. I conducenti, pur brontolando, le hanno caricate sulle slitte e hanno offerto loro sigarette. Andate a cucinare, borbottavano, e non alla guerra. Al mio caposaldo è venuto il tenente Pendoli. Cerca di riposare e di dormire ora: ne hai bisogno.
Mi buttai sul tavolato: ma non ero capace di addormentarmi. Le bombe nella cacciatora mi premevano sulle reni, le giberne piene di caricatori mi pesavano sullo stomaco. Ma nemmeno in un letto di piuma sarei riuscito a dormire. In una tasca interna della giubba, entro una borsa fatta con un pezzo di tela, tenevo le mie cose piú care; erano lettere e sentivo quelle parole entro di me. Ove sarà ora? Forse in un’aula a leggere poesie in latino o nella sua stanza, e guardando tra vecchi libri e cose morte avrà trovato una stella alpina. Ma sono sciocco a pensare queste cose. Perché non viene il sonno?