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Vigor tornò dicendo che tre miglia più avanti c’era una locanda. Come notizia era buona, tranne che fra loro e quella locanda scorreva un fiume. Come fiume non era granché, e l’acqua al guado era bassa, ma Alvin Miller aveva imparato a non fidarsi dell’acqua. Per quanto possa sembrare tranquilla, puoi star sicuro che prima o poi allunga gli artigli e cerca di agguantarti. Aveva una mezza idea di dire a Faith che avrebbero trascorso la notte da questa parte del fiume, ma proprio in quel momento lei emise un lamento quasi impercettibile, e lui si rese conto che non sarebbe assolutamente stato possibile. Faith gli aveva dato dodici figli vivi, ma erano ormai trascorsi quattro anni dall’ultima volta, e molte si trovavano male ad avere un figlio così tardi. Molte morivano. Una buona locanda significava donne in grado di dare una mano per il parto; perciò avrebbero dovuto rischiare l’attraversamento del guado.

E poi Vigor aveva detto che come fiume non era granché.

III

IL DEPOSITO SULLA SORGENTE

Nel deposito l’aria era fresca e greve, buia e umida. Qualche volta, quando la piccola Peggy andava lì dentro a fare un sonnellino, si svegliava boccheggiando come se tutto quel posto si fosse trovato sott’acqua. Qualche volta sognava l’acqua anche quando non si trovava lì… e questo era uno dei motivi che inducevano alcuni a sospettare che non fosse una fiaccola, bensì una stilla. Ma quando la piccola Peggy sognava fuori di lì, sapeva sempre che stava sognando. Lì invece l’acqua era vera.

Vera nelle gocce che si condensavano come sudore sui recipienti per il latte immersi per metà nel ruscello. Vera nella fredda, umida argilla del pavimento. Vera nel rumore gorgogliante del ruscello che scorreva in mezzo al locale.

Il deposito veniva mantenuto fresco per tutta l’estate da quell’acqua gelida che, sgorgando dal fianco della collina, andava a finire lì dentro, ombreggiata in tutto il suo corso da alberi così venerandi che la luna si faceva un dovere di passare attraverso i loro rami solo per ascoltare qualche buona, vecchia storia. Ecco perché la piccola Peggy ci veniva sempre, anche quando papà non la odiava. Non per quell’aria umida, della quale avrebbe potuto benissimo fare a meno. Era per come la fiamma le si spegneva dentro, e lei non era più costretta a essere fiaccola, a scrutare negli angoli bui dove la gente andava a nascondersi.

Da lei, si nascondevano, come se avesse potuto servirgli a qualcosa. Ciò che meno gli piaceva di se stessi, loro cercavano di rimpiattarlo in qualche oscuro recesso, senza sapere che agli occhi della piccola Peggy quell’oscurità era come illuminata a giorno. Persino quand’era così piccola da sputare la farinata di granturco nella speranza di un supplemento di poppa, era già a conoscenza di tutte le storie che la gente intorno a lei cercava di nasconderle. La piccola Peggy infatti era in grado di scorgere quei frammenti del loro passato che più desideravano di poter seppellire, e quei frammenti del loro futuro dei quali avevano più paura.

Ecco perché aveva cominciato a venire nel deposito sulla sorgente. Qui non era più costretta a vedere nulla. Nemmeno la signora nei ricordi di papà. Qui non c’era altro che l’aria pesante, umida, buia, fresca, capace di estinguere la fiamma e abbassare la luce, così che lei potesse essere — anche solo per pochi minuti nell’arco di una giornata — una bambina di cinque anni con un bambolotto di paglia chiamato Bugy, e non dovesse nemmeno pensare ai segreti degli adulti.

Non sono cattiva, si disse. Continuò a ripeterselo, ma non funzionò, perché sapeva di esserlo.

Benissimo allora, si disse, sono cattiva. Ma non sarò più cattiva. Dirò la verità come vuole papà, oppure non dirò nulla.

Persino a cinque anni, la piccola Peggy sapeva che se avesse mantenuto quel giuramento, avrebbe fatto molto meglio a non dire nulla.

Perciò non disse nulla, nemmeno a se stessa, limitandosi a restare distesa su una tavola di legno umido e ricoperto di muschio, stringendo Bugy nel pugno così forte da stritolarlo.

Bing, bing, bing.

La piccola Peggy si svegliò e per qualche istante si arrabbiò moltissimo.

Bing, bing, bing.

Si arrabbiò perché nessuno le aveva detto: piccola Peggy, non ti dispiace se permettiamo a questo giovane fabbro di venire a stare qui da noi, vero?

Per niente, papà, avrebbe detto, se glielo avessero chiesto. Sapeva bene che cosa significava avere una fucina di fabbro. Significava che il villaggio sarebbe prosperato e sarebbe arrivata gente da altri posti, e quando fosse arrivata ci sarebbero stati scambi e commerci, e con gli scambi e i commerci la grande casa di suo padre sarebbe potuta diventare una locanda, e se ci fosse stata una locanda allora tutte le strade in qualche modo avrebbero fatto una piccola deviazione solo per passare di lì, se non era troppo fuori mano… La piccola Peggy tutto questo lo sapeva bene, esattamente come i bambini dei contadini conoscono i ritmi della fattoria. Una locanda accanto a una fucina di fabbro era una locanda sicura di prosperare. Perciò la piccola Peggy avrebbe detto: certo, lasciatelo venire qui, concedetegli un pezzo di terra, regalategli i mattoni per il camino, nutritelo gratis, dategli il mio letto in modo che io sia costretta a dormire in quello del cugino Peter che cerca sempre di sbirciarmi sotto la camicia da notte, mi adatterò a tutto… purché non me lo mettiate vicino al deposito sulla sorgente, cosicché anche quando vorrei restarmene da sola con l’acqua si senta in continuazione quel bing bang barn hiss, rumore in continuazione, e il fuoco che divampa fino in cielo tanto da farlo diventare nero, e il puzzo del carbone che brucia. Tutto questo era più che sufficiente a far sì che una desiderasse risalire il ruscello fin dentro la montagna, solo per starsene un poco in pace.

Ovviamente il ruscello era il posto più indicato per metterci il fabbro. Se non fosse stato per l’acqua, avrebbe potuto costruire la sua fucina assolutamente ovunque. Il ferro gli arrivava col carro del corriere direttamente dalla Nuova Olanda, e il carbone… be’, non mancavano certo i contadini disposti a barattare del carbone di legna con un buon ferro da cavallo. Ma l’acqua, ecco qualcosa di cui il fabbro aveva assoluto bisogno e che nessuno gli poteva portare, e così ovviamente l’avevano messo proprio sotto il deposito sulla sorgente, dove il suo bing bing bing potesse svegliarla facendo nuovamente divampare la fiamma dentro di lei, proprio nell’unico posto in cui sino a quel momento era riuscita a smorzarla fin quasi a farla diventare cenere fredda e bagnata.

Un rombo di tuono.

In un attimo fu sulla soglia. Doveva vedere il fulmine. Ne colse solo l’ultimo baluginio, ma. sapeva che ne sarebbero caduti altri. Sicuramente mezzogiorno non era trascorso da molto… o aveva dormito tutta la giornata? Con quelle nubi nere e basse era difficile dirlo; sarebbero potuti essere anche gli ultimi momenti del crepuscolo. Nell’aria avvertiva il pizzicore del fulmine che non vedeva l’ora di avventarsi. La piccola Peggy conosceva quella sensazione: significava che il fulmine sarebbe caduto vicino.

Abbassò lo sguardo per vedere se nel recinto del fabbro c’erano ancora i cavalli. Sì, era così. Il lavoro di ferratura non era ancora terminato, la strada si sarebbe trasformata in viscida fanghiglia, e il contadino di West Fork e i suoi due figli sarebbero stati costretti a restare lì. Assolutamente impensabile che riprendessero la via di casa sotto quel finimondo, col fulmine che da un momento all’altro poteva dar fuoco al bosco, o fargli crollare un albero addosso, oppure semplicemente mollargli una sventola di quelle buone e lasciarli tutti morti stecchiti in cerchio come quei cinque quaccheri di cui ancora si raccontava, eppure era successo anni prima, nel ’90, quando i primi bianchi erano venuti a stabilirsi da quelle parti. La gente ancora parlava del Cerchio dei Cinque e roba del genere: alcuni si chiedevano se Dio non si fosse deciso a fulminare quei quaccheri per farli star zitti, visto che altri sistemi non ne aveva trovati; altri invece si domandavano se Dio non se li fosse portati in cielo come il primo Lord Protettore, Oliver Cromwell, che era stato colpito dal fulmine all’età di novantasette anni scomparendo senza lasciar traccia.