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Così Eleanor portò il bambino nella sala grande, dove il fuoco scoppiettava per asciugare gli abiti degli uomini, che smisero di scambiarsi storie di piogge e alluvioni di quel tanto che bastava per ammirare il neonato.

In camera, tuttavia, la mamma prese la piccola Peggy per il mento e la fissò a lungo negli occhi. «Adesso devi dirmi la verità, Margaret. È grave che un bambino si nutra d’odio col latte di sua madre».

«Non è lei a odiarlo, mamma» disse la piccola Peggy.

«Che cos’hai visto?»

La piccola Peggy avrebbe voluto rispondere, ma non possedeva le parole per raccontare la maggior parte delle cose che aveva visto. Così abbassò lo sguardo sul pavimento. Dal modo in cui la mamma riprendeva fiato capì ch’era sul punto di darle una bella strigliata. Ma la mamma aspettò, e poi la sua mano scese lieve a carezzare la guancia della piccola Peggy. «Ah, bambina, che giornata hai avuto. Il piccolo sarebbe potuto morire, se tu non mi avessi detto di tirarlo fuori. Sei perfino andata ad aprirgli la bocca… è questo che hai fatto, non è vero?»

La piccola Peggy annuì.

«Per essere una bambina così piccola, mi pare che per oggi tu ne abbia passate anche troppe». La mamma si rivolse alle altre bambine, quelle coi vestiti bagnati, ancora addossate al muro. «Anche voi per oggi ne avete avuto abbastanza. Uscite di qui, lasciate dormire vostra madre, venite ad asciugarvi al fuoco. Vi preparerò la cena».

Ma in cucina si stava già dando da fare il nonno, il quale non volle assolutamente che la mamma alzasse un dito. La mamma allora uscì dalla stanza, e poco dopo era di ritorno col neonato; aveva cacciato fuori gli uomini per poterlo addormentare, e lo cullava facendogli succhiare una delle proprie dita.

Dopo un po’ la piccola Peggy pensò che nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, perciò sgattaiolò al piano di sopra fino alla scala a pioli che portava in soffitta, e la salì ratta ratta fino a trovarsi in quell’ampio spazio senza luce che odorava di muffa e di rinchiuso. I ragni non la infastidivano più di tanto, e i topi erano generalmente tenuti a bada dai gatti, per cui non aveva paura. Subito si rimpiattò nel suo nascondiglio segreto, e tirò fuori la scatola di legno intagliato regalatale dal nonno, il quale le aveva raccontato che era appartenuta al bisnonno, che se l’era portata dietro dall’Irlanda del Nord. La scatola era piena dei piccoli tesori dell’infanzia — pietruzze, spaghi, bottoni — ma ora la piccola Peggy sapeva che quegli oggetti non erano niente in confronto all’opera che l’avrebbe impegnata per il resto dei suoi giorni. Vuotò completamente la scatola e ne soffiò via la polvere. Quindi vi depose il cappuccio piegato e chiuse il coperchio.

Sapeva che in futuro avrebbe aperto quella scatola una dozzina di dozzine di volte. Che la scatola l’avrebbe chiamata imperiosamente a sé, l’avrebbe svegliata nel cuore della notte, l’avrebbe strappata agli amici, le avrebbe sottratto i suoi sogni. Tutto perché quel neonato che dormiva dabbasso non aveva alcun futuro tranne la morte nelle acque tenebrose, a meno che lei non avesse usato quel cappuccio per proteggerlo, così come esso lo aveva protetto nel grembo di sua madre.

Per un istante provò uno scatto d’ira all’idea che la sua vita venisse sconvolta in quel modo. Era peggio dell’arrivo del fabbro, sì, peggio di papà e della verga di nocciolo con cui la frustava, peggio della mamma quando la guardava rabbuiata in viso. D’allora in poi tutto sarebbe stato diverso, e questo non era giusto. Tutto per un bambino che non aveva mai invitato, al quale non aveva mai chiesto di venire; che gliene importava, a lei, di quell’accidente di bambino?

Allungò la mano e aprì la scatola, con l’idea di prendere il cappuccio e di gettarlo in un angolo buio della soffitta. Ma anche nell’oscurità scorse un luogo dove il buio era ancora più fitto: presso la propria fiamma vitale, dove il nulla di quel profondo fiume tenebroso stava tramando per trasformarla in un’assassina.

Non lo farò, disse all’acqua. Tu non sei parte di me.

Sì che lo sono, sussurrò l’acqua. Sono dentro di te, e senza di me ti prosciugheresti e moriresti.

Ma non mi puoi comandare, ribatté la piccola Peggy.

Chiuse di nuovo il coperchio e si lasciò scivolare giù per la scala a pioli. Papà diceva sempre che in quel modo si sarebbe beccata qualche scheggia nel sedere. Stavolta ebbe ragione. Il fondoschiena le faceva un male cane, e per arrivare in cucina dal nonno fu costretta a camminare tutta di sbieco. Lui, si capisce, abbandonò i fornelli per toglierle le schegge una per una.

«Non ho più gli occhi per un lavoro del genere, Maggie» protestò lui.

«Ma se hai la vista di un’aquila. L’ha detto papà».

Il nonno ridacchiò. «Ma davvero?»

«Cosa c’è per cena?»

«Vedrai che ti piacerà, Maggie».

La piccola Peggy arricciò il naso. «Dall’odore sembra pollo».

«Hai indovinato».

«Non mi piace il brodo di pollo».

«Non c’è solo il brodo, Maggie. L’ho fatto arrosto, tranne il collo e le ali».

«Mi fa schifo anche il pollo arrosto».

«Il nonno ti ha mai detto una bugia?»

«Naah».

«E allora fai meglio a credermi se ti dico che questo pollo ti farà felice. Prova a indovinare. Perché mai mangiare per cena un certo pollo dovrebbe renderti felice?»

La piccola Peggy ci pensò su a lungo, poi sorrise.

«Maria la Sanguinaria?»

Il nonno le strizzò l’occhio. «L’ho sempre detto che quella gallina era nata per il tegame».

La piccola Peggy lo abbracciò così forte che lui cominciò a emettere suoni strozzati, e poi risero entrambi fino ad avere le lacrime agli occhi.

Più tardi quella stessa notte, molto dopo che la piccola Peggy era andata a letto, riportarono a casa il corpo di Vigor, e papà e Makepeace cominciarono a fabbricare la bara. Alvin Miller sembrava più morto che vivo, anche quando Eleanor gli fece vedere il bambino. Ma poi quest’ultima gli disse: «Quella bambina, la fiaccola. Ha detto che questo bambino è il settimo figlio d’un settimo figlio».

Alvin si guardò intorno in cerca di qualcuno che gli confermasse la notizia.

«Sì, di lei vi potete fidare» disse comare Guester.

Negli occhi di Alvin ricomparvero le lacrime. «Quel ragazzo ha tenuto duro» disse. «Laggiù nell’acqua ha tenuto duro quel tanto che bastava».

«Sapeva quanto fosse importante per te» disse Eleanor.

Poi Alvin prese il bambino, lo strinse a sé e lo guardò negli occhi. «Nessuno gli ha ancora dato un nome, vero?» chiese.

«Certo che no» disse Eleanor. «Il nome di tutti i miei fratelli l’ha scelto la mamma, ma tu hai sempre detto che il settimo figlio si sarebbe chiamato…».

«Come me. Alvin. Settimo figlio maschio d’un settimo figlio maschio, con lo stesso nome di suo padre. Alvin Junior». Si guardò intorno, quindi si volse verso il fiume che scorreva in lontananza attraverso la foresta immersa nell’oscurità. «Mi hai sentito, Hatrack? Si chiamerà Alvin, e nonostante tutto non sei riuscito a ucciderlo!»

Poco dopo gli altri portarono dentro la bara e vi composero il corpo di Vigor, con le candele accese a simboleggiare la fiamma della vita che lo aveva abbandonato. Alvin sollevò il bambino sopra il feretro. «Guarda tuo fratello» sussurrò al neonato.

«Il bambino non può ancora vedere nulla, papà» disse David.

«Questo non è vero, David» disse Alvin. «Non sa cosa vede, ma i suoi occhi possono vedere. E quando sarà abbastanza grande da ascoltare la storia della sua nascita, gli racconterò che ha visto coi suoi stessi occhi suo fratello Vigor, che ha sacrificato la vita per lui».

Prima che Faith fosse di nuovo in condizione di viaggiare trascorsero due settimane. Ma Alvin Miller fece in modo che lui e i ragazzi si guadagnassero il vitto e l’alloggio. Insieme disboscarono un bel tratto di terreno, spaccarono la legna per l’inverno, costruirono alcune carbonaie per Makepeace Smith e allargarono la strada. Quindi abbatterono quattro grandi alberi e costruirono un solido ponte attraverso il fiume Hatrack: un ponte coperto, in modo che anche sotto un temporale la gente potesse attraversare il fiume senza essere bagnata da una sola goccia d’acqua.