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«Le ha causato problemi?»

«Qualcuno. Ficca il naso dappertutto, sempre timoroso che possiamo compiere qualche sacrilegio. Un sacrilegio, dico, in una città che gli stessi piurivar rasero al suolo e maledissero. Che male possiamo fare noi qui, dopo tutto quello che loro stessi hanno inflitto a questo luogo?»

«Questa era la loro capitale», rispose Valentine. «Erano liberi di farne ciò che volevano. Ciò non significa che faccia loro piacere vederci arrivare qui per rovistare tra le rovine. Ma quello che mi interessa sapere è se questo khivanivod abbia mai cercato di interrompere il suo lavoro.»

«È contrario all'apertura del Santuario della disfatta.»

«Ah. In effetti lei aveva già accennato a qualche problema politico in merito. Che cosa ha fatto, ha sporto una protesta ufficiale?» Gli accordi in base ai quali Valentine aveva ottenuto il consenso dei piurivar all'invio di archeologi a Velalisier riconosceva loro il diritto di veto per bloccare qualsiasi aspetto dei lavori che incontrasse la loro opposizione.

«Per il momento si è semplicemente limitato a dirci che non vuole che il santuario venga aperto», rispose Magadone Sambisa. «Il dottor Huukaminaan e io avevamo in programma una riunione con lui la settimana scorsa per cercare di raggiungere un compromesso, benché abbia difficoltà a immaginare che tipo di compromesso ci possa essere tra l'aprire e il non aprire il santuario. A ogni modo, la riunione non si tenne, per ovvi e tragici motivi. Ora che siete qui vorrete forse essere voi ad appianare la disputa al rientro di Torkkinuuminaad, ovunque si sia cacciato.»

«Torkkinuuminaad?» domandò Valentine. «È così che si chiama il khivanivod?»

«Sì. Torkkinuuminaad.»

«Che fatica questi nomi mutaforma», sbottò Nascimonte. «C'è da spaccarsi le mascelle: Torkkinuuminaad! Vathiimeraak! Huukaminaan!» Si rivolse con tono acceso ad Aarisiim. «Compagno mio, in nome del Divino, era proprio necessario per la tua gente darsi dei nomi tanto smaccatamente impossibili da pronunciare, quando avreste benissimo potuto…»

«Il sistema è assolutamente logico», rispose serenamente Aarisiim. «Il raddoppio delle vocali nella prima parte del nome indica…»

«Rimandiamo questa discussione a un altro momento, se non vi dispiace», intervenne Valentine, fendendo l'aria con un gesto della mano a mo' di ascia. Riprese a interrogare Magadone Sambisa. «Per curiosità, che tipo di rapporto aveva il khivanivod con il dottor Huukaminaan? Difficile? Teso? Riteneva che fosse sacrilego sgombrare le rovine dalle erbacce e rimettere in sesto alcuni degli edifici?»

«Per nulla», disse Magadone Sambisa. «Lavoravano in perfetta armonia. Nutrivano il massimo rispetto l'uno per l'altro, sebbene solo il Divino può spiegare come mai il dottor Huukaminaan tollerasse anche solo per un minuto quel vecchio e lurido selvaggio. Crede forse che… l'assassino possa essere Torkkinuuminaad

«La ritiene un'ipotesi tanto improbabile? Lei stessa sembra non avere nulla di positivo da dire sul suo conto.»

«È fastidioso e irritante, e certamente si è reso di grande ostacolo al nostro lavoro, se non altro per quanto riguarda il santuario. Ma pensare che sia un omicida… Neppure io potrei spingermi a tanto, maestà. Era chiaro a tutti che lui e il dottor Huukaminaan nutrivano grande affetto l'uno per l'altro.»

«Dovremo comunque interrogarlo», disse Nascimonte.

«Certamente», concordò Valentine. «Voglio che domani vengano inviati messaggeri in tutta la zona archeologica a cercarlo. Si trova da qualche parte tra le rovine, no? Troviamolo e riportiamolo qui. Se questo vorrà dire interrompere il suo ritiro spirituale, così sia. Ditegli che è stato convocato dal Pontifex.»

«Ci penserò io», assicurò Magadone Sambisa.

«Ora il Pontifex è molto stanco», disse Valentine. «Mi ritirerò a dormire.»

Rimasto da solo nella tenda reale dopo le interminabili fatiche di quella intensa giornata, Valentine si ritrovò a sentire la mancanza di Carabella con sorprendente intensità: quella donna piccola e sinuosa che aveva condiviso il suo destino fin quasi dall'inizio dello strano periodo in cui si era trovato a Pidruid, all'altro capo del continente, spogliato di ogni ricordo, di ogni conoscenza e consapevolezza di sé. Era stata lei, che l'amava solo per ciò che era, totalmente all'oscuro del fatto che in realtà fosse un Coronal costretto a un inconsapevole esilio dalla sua vera identità, ad aiutarlo a entrare nella troupe di giocolieri di Zalzan Kavol, dopodiché, a poco a poco le loro vite si erano fuse in una sola; e quando aveva intrapreso il suo stupefacente ritorno alle vette del potere, lei lo aveva seguito, fino in cima al mondo.

Desiderava ardentemente che fosse con lui anche in quel momento. Sedutagli accanto, a parlare con lui come sempre facevano prima di mettersi a letto. Avrebbe voluto ripercorrere con lei le ingarbugliate ramificazioni di tutto quanto aveva appreso durante il giorno, poter contare sul suo aiuto per dare una spiegazione agli intricati misteri di quella città morta da millenni. E, semplicemente, poter stare con lei.

Ma Carabella non l'aveva seguito a Velalisier. Aveva obiettato che era uno sciocco spreco del tempo prezioso di un Pontifex recarsi di persona a investigare l'omicidio. Manda Tunigorn, gli aveva detto; manda Sleet; manda chi vuoi tra i tanti alti funzionali pontificali. Ma perché andare di persona?

«Perché devo», le aveva risposto Valentine. «Perché mi sono preso la responsabilità di reintegrare i metamorfi nella vita di questo mondo. Gli scavi a Velalisier sono un aspetto fondamentale di tale impresa. E l'omicidio di questo anziano archeologo mi fa sorgere il sospetto che ci siano dei cospiratori, intenzionati a interferire con i lavori.»

«È solo una tua supposizione», ribatté Carabella.

«Spero che rimanga tale. Ma sai bene quanto brami l'occasione di sfuggire al Labirinto, anche solo per una o due settimane. Voglio andare a Velalisier.»

«Io, invece, non ci voglio andare affatto, Valentine. È un posto orribile, di morte e distruzione. Ci sono stata due volte e non ho alcun desiderio di tornarci. Se vuoi partire, dovrai farlo senza di me.»

«Ho deciso di andare, Carabella.»

«Allora vai. Se proprio devi.» Detto questo, gli aveva baciato la punta del naso, perché non erano avvezzi a litigare, o anche solo a discutere animatamente. Ma quando poi partì, dovette effettivamente farlo senza di lei. Quella sera lei si trovava negli appartamenti reali del Labirinto. E lui era lì, nella sua grandiosa ma solitaria tenda, in quella riarsa e diroccata città di antichi fantasmi.

Fantasmi che quella notte gli fecero visita, in sogno.

Fantasmi che gli fecero visita con tale intensità da dargli l'impressione che si trattasse di un invio: una lucida forma di comunicazione diretta in forma di sogno.

Ma l'esperienza fu diversa da qualsiasi altro invio avesse mai avuto. Aveva a malapena chiuso gli occhi che si trovò a vagare nel sonno tra gli edifici caduti e distrutti della diroccata Velalisier. Da ciascuna pietra infranta si levava una luce strana e misteriosa, spettrale e danzante. La città era avvolta in un bagliore prima verdastro, poi giallastro, pulsando di una propria luminescenza interiore. Volti schiariti dalla luce, volti di fantasmi, si libravano nell'aria rivolgendogli ghigni di scherno. In alto, il sole volteggiava e balzava follemente, descrivendo improbabili archi nel cielo.

Davanti a lui vide una buia apertura che si estendeva nel terreno e la attraversò, senza esitare, scendendo una lunga rampa di imponenti scale di pietra, coperte di licheni e intarsiate di arcaiche rune. Ogni movimento gli risultava arduo. Benché scendesse sempre più in profondità, lo sforzo era paragonabile a quello di una scalata. Avanzando faticosamente, s'inoltrava nelle viscere del suolo provando tutto il tempo la sensazione di muoversi verso l'alto contrastando un'insistente forza contraria, come se stesse ascendendo una sorta di piramide capovolta, non di quelle snelle e allungate che si ergevano dalla superficie di Velalisier, bensì una gigantesca, di massa e diametro insondabili. Si immaginò impegnato a risalire la ripida parete di una montagna, facendo ricorso a tutte le sue forze; ma era una montagna la cui cima era rivolta verso il basso, che affondava nelle profondità della terra. E il sentiero che seguiva lo stava conducendo, ne aveva la consapevolezza, verso un labirinto di gran lunga più spaventoso di quello in cui abitualmente dimorava.