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«Be', mi lasci riflettere…» mormorò lei. «Le apparecchiature di registrazione, il sistema d'illuminazione, le trivelle…» Fece una pausa di silenzio, come se stesse controllando mentalmente una lista di altre esigenze. Poi annunciò: «Potremmo essere pronti per cominciare tra mezz'ora».

«Molto bene. Allora muoviamoci.»

«No! Non può!» gridò Torkkinuuminaad in un accesso di furore.

«Invece posso», lo contraddisse Valentine. «E lei sarà presente sul posto. Come lo sarò io.» Chiamò con un gesto Lisamon Hultin. «Parlagli, Lisamon. Convincilo che sarà molto meglio per lui se rimane calmo.»

Tradendo una certa dubbiosità, Magadone Sambisa domandò: «Vuole davvero farlo, Pontifex?»

«Oh, sì. Certamente. Dico proprio sul serio.»

La giornata sembrò lunga cento ore.

L'apertura di un camera sigillata durante uno scavo archeologico era sempre un'operazione da condurre con minuziosa metodicità. Ma nel caso di un sito così importante, tanto pregno di significato simbolico, dalle implicazioni politiche a dir poco esplosive, ogni fase doveva essere portata a termine con una tripla dose di cura e attenzione.

Valentine rimase in superficie durante la prima parte dei lavori. Gli era stato spiegato tutto quanto stavano facendo laggiù: la posa dei cavi per il sistema d'illuminazione; l'inserimento di tubi di ventilazione per le scavatrici; l'uso di sonde acustiche per accertarsi che la perforazione della parete del santuario non avrebbe determinato il crollo del soffitto della cripta; l'esame acustico dell'interno del santuario stesso per verificare che nulla d'importante oltre la parete fosse messo a repentaglio dalla trivellazione.

Ci vollero ore. Ma finalmente furono pronti a cominciare la perforazione della parete.

«Vuole assistere, maestà?» domandò Magadone Sambisa.

Nonostante il sistema di ventilazione, Valentine faticava a respirare nel cunicolo. L'aria era già stata sufficientemente calda e pesante alla sua prima visita; ma ora, con tutte quelle persone accalcate nel cunicolo, la mancanza d'ossigeno lo costringeva a sforzare i polmoni per sottrarsi al senso di vertigine.

Gli archeologi, stretti gli uni accanto agli altri, si divisero per lasciarlo passare. I fari inondavano di luce la facciata di pietra bianca del santuario. Davanti a essa, cinque persone erano in attesa, tre piurivar e due umani. La trivellazione vera e propria sembrava essere stata affidata al robusto caposquadra Vathiimeraak. Kaastisiik, l'archeologo piurivar nominato direttore degli scavi, era presente per guidarlo. Subito alle loro spalle Driismiill, lo storico dell'architettura piurivar, e una donna umana di nome Shimrayne Gelvoin, evidentemente anch'essa architetto. Magadone Sambisa era posizionata più indietro e dava ordini con voce pacata.

Stavano smantellando la parete una pietra alla volta. Una parte della facciata, pari a circa un metro quadrato, era già stata rimossa appena sopra la fila di nicchie per le offerte. Dall'altra parte era visibile una parete di mattoni grezzi, di spessore pari a una sola fila di laterizi. Vathiimeraak, che mormorava tra sé in lingua piurivar mentre lavorava, era impegnato a liberare uno dei mattoni con uno scalpello. Riuscì a sfilarlo, producendo una piccola cascata di polvere e detriti e rivelando la presenza, dall'altra parte, di una nuova parete interna eretta con le stesse lastre di pietra nera di cui era rivestito il cunicolo.

Seguì una lunga pausa, durante la quale i diversi strati della parete vennero misurati e fotografati. Poi Vathiimeraak riprese la perforazione. In quell'ambiente viziato e acre Valentine cominciò ad avvertire un senso di nausea, ma cercò di contrastarlo.

Vathiimeraak si spinse più in profondità, sostando per permettere a Kaastisiik di rimuovere alcuni frammenti della pietra nera. I due architetti si fecero avanti e ispezionarono il foro, conferendo prima tra loro, poi con Magadone Sambisa; dopodiché Vathiimeraak riposizionò la sua trivella.

«Serve una torcia», disse Magadone Sambisa a un tratto. «Qualcuno mi dia una torcia!»

Una torcia giunse dalla calca in fondo al cunicolo, passata di mano in mano. Magadone Sambisa la infilò nel foro, vi guardò dentro e rimase senza fiato.

«Maestà! Maestà, venga a vedere!»

Al chiarore di quell'unico fascio di luce Valentine si trovò a guardare dentro una grande camera rettangolare, che sembrava completamente vuota a eccezione di un grande blocco quadrato di pietra scura. Somigliava molto al lucido blocco di opale nero, percorso da venature scarlatte e rubino, dal quale era stato scolpito il glorioso trono Confalume che si trovava nel castello del Coronal.

Sul blocco erano disposti alcuni oggetti. Ma a quella distanza era impossibile capire che cosa fossero.

«Quanto vi occorre per praticare un'apertura grande abbastanza da consentire l'accesso di una persona all'interno?» domandò Valentine.

«Tre ore, direi.»

«Riusciteci in due. Io aspetterò in superficie. Chiamatemi quando l'apertura sarà pronta. E si accerti che nessuno entri prima di me.»

«Le do la mia parola, maestà.»

Anche l'aria secca del deserto era un piacere da respirare dopo un'ora trascorsa all'interno del cunicolo. Valentine vide le ombre cominciare ad allungarsi nei profondi avvallamenti delle dune in lontananza e capì che il pomeriggio volgeva ormai al termine. Tunigorn, Mirigant e Nascimonte passeggiavano tra le rovine della piramide abbattuta. Il vroon Deliamber si teneva in disparte da un lato.

«Allora?» indagò Tunigorn.

«Hanno aperto un buco nella parete. Dentro c'è qualcosa, ma non sappiamo ancora di che si tratti.»

«Un tesoro?» domandò Tunigorn con un ghigno lascivo. «Cumuli di smeraldi, diamanti e giada?»

«Sì», rispose Valentine. «E molto altro ancora. Un autentico tesoro. Un tesoro enorme, Tunigorn.» Rise e si voltò. «Hai con te del vino, Nascimonte?»

«Come sempre, amico mio. Dell'ottimo Muldemar d'annata.»

Passò la fiaschetta al Pontifex, che bevve d'un fiato, senza sostare affatto per assaporare il bouquet, trangugiando vino come se fosse acqua.

Le ombre andarono addensandosi. Una delle lune minori spuntò ai margini del cielo.

«Maestà? Vuole scendere da basso?»

Era l'archeologo Vo-Siimifon. Valentine lo seguì nel cunicolo.

Trovò che l'apertura nella parete era stata allargata in modo da consentire il passaggio di una persona. Magadone Sambisa, con mano tremante, passò la torcia a Valentine.

«Le devo chiedere, maestà, di non toccare nulla, di non spostare in alcun modo ciò che si trova all'interno. Non vogliamo negarle il privilegio di entrare per primo, ma non bisogna dimenticare che la nostra è un'impresa scientifica. Prima di toccare alcunché dobbiamo documentare ogni cosa, per quanto banale possa sembrare all'apparenza, così come viene trovata.»

«Capisco», disse Valentine.

Scavalcò con attenzione la parte di parete rimasta eretta ai piedi dell'apertura ed entrò.

Il pavimento del santuario era lastricato di pietra liscia e lucida, forse quarzo rosa. Era ricoperto da un sottile strato di polvere. In ventimila anni nessuno ha attraversato questa stanza, pensò Valentine. Nessun piede umano si è mai posato su questo pavimento.

Si avvicinò al massiccio blocco di pietra al centro del sacrario e lo illuminò con la torcia. Sì, era un unico blocco di opale nero striato di rubino, esattamente come il trono Confalume. Su di esso, il suo splendore offuscato solo da una lieve traccia di polvere, era posata una sottile lamina d'oro, incisa con intricati geroglifici piurivar e incastonata di cabochon che sembravano essere di berillo, corniola e lapislazzuli. Due oggetti lunghi e affusolati, che sarebbero potuti essere stiletti ricavati da una qualche pietra bianca, erano posizionati al centro esatto della lamina d'oro, uno accanto all'altro.

Valentine venne scosso da un tremore di profonda soggezione. Sapeva che cosa fossero quei due oggetti.