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«Maestà? Maestà?» chiamò Magadone Sambisa. «Ci dica che cosa vede! Le prego!»

Ma Valentine non rispose. Fu come se Magadone Sambisa non avesse neppure parlato. Era assorto nei propri ricordi, riportato indietro nel tempo di otto anni, alle ore decisive della Guerra di Ribellione.

In quel frangente aveva stretto nella rnano un oggetto molto simile ai due che vedeva davanti a sé adesso, avvertendone la strana freschezza, una freschezza che lasciava trasparire un accenno dell'anima infuocata che si celava al suo interno, e sentendo una musica complessa e distante che dall'oggetto si emanava direttamente nella sua mente, un flusso turbolento di suono inebriante.

Era stato il dente di un drago marino che aveva stretto nel pugno allora. Qualcosa di misterioso dentro di esso aveva innescato la comunione della sua mente con quella del possente re delle acque Maazmoorn, un drago del distante Mare Interno. Ed era stato con l'aiuto di Maazmoorn che il Pontifex Valentine aveva attraversato il mondo per colpire l'impenitente ribelle Faraataa e stroncare la tragica rivolta.

E quei denti, a chi appartenevano?

Pensava di saperlo. Si trovava nel Santuario della disfatta, nel luogo della Profanazione. Non lontano da lì, molto tempo prima, due re delle acque erano stati strappati al mare e sacrificati su piattaforme di pietra azzurra. Non era una leggenda. Era realmente accaduto. Valentine ne aveva la certezza, perché il re delle acque Maazmoorn gli aveva mostrato la scena attraverso la piena comunione con la sua mente, in maniera tale da non lasciare adito a dubbi. Conosceva anche i loro nomi: uno era il re delle acque Niznorn e l'altro era il re delle acque Domsitor. Questo dente era dunque di Niznorn, e quest'altro di Domsitor?

Ventimila anni.

«Maestà? Maestà?»

«Un minuto», rispose Valentine, con una voce che sembrava provenire dall'altra parte del pianeta.

Raccolse il dente a sinistra. Lo strinse nella mano. Si lasciò sfuggire un sibilo allorché la bruciante sensazione di freddo gli penetrò nel palmo. Chiuse gli occhi e lasciò che la magia di quell'oggetto gli pervadesse la mente. Sentì il proprio spirito gonfiarsi ed estendersi verso l'esterno, fuori, sempre più lontano, in direzione di un re delle acque in immobile attesa… di nuovo Maazmoorn, per quanto poteva saperne, o forse uno degli altri giganti che popolavano quelle acque remote. Tutto il tempo udiva i rintocchi delle campane, il risuonare della musica che nasceva nella mente del drago marino.

E gli venne concessa una visione dell'antico sacrificio dei due re delle acque, di quell'evento passato alla storia con il nome di Profanazione.

Sapeva già, informato da Maazmoorn durante la precedente comunione di menti anni prima, che quel nome era il risultato di un equivoco. Non era avvenuta alcuna profanazione. Era stato un sacrificio volontario; l'evento aveva segnato l'accettazione formale da parte dei draghi di mare del potere di Ciò Che È, la più grande di tutte le forze dell'universo.

I re delle acque si erano consegnati volentieri ai piurivar della Velalisier di quell'epoca per essere uccisi. Gli stessi uccisori erano molto probabilmente coscienti delle loro azioni, mentre ogni comprensione sfuggiva ai piurivar più umili e semplici delle province circostanti; erano stati loro a definire il gesto una profanazione, mettendo a morte il Re Finale di Velalisier e abbattendo la Settima piramide, procedendo poi a distruggere tutto il resto dell'antica, grandiosa capitale, e pronunciando su di essa una maledizione destinata a durare in eterno. Ma non avevano osato toccare il santuario in cui erano custoditi quei denti.

Valentine, stringendo il dente nella mano, assistette ancora una volta al sacrificio. Ma non più con i draghi marini legati e furiosi che si dimenavano cercando di liberarsi, come gli erano apparsi nell'incubo della notte precedente. Nient'affatto. Gli apparve ora come una cerimonia serena e sacra, una volontaria e benigna offerta di carne viva. Al baluginare dei coltelli, alla morte delle grandi creature marine, al trasporto della loro densa carne nera verso le pire per essere bruciata, una risonante ondata di trionfale armonia riecheggiò fino ai confini dell'universo.

Posò il dente e impugnò l'altro. Lo strinse. Ne avvertì il freddo e la consistenza. Si arrese al suo potere.

Stavolta la musica era più dissonante. La visione che ebbe era incentrata sulla figura di un uomo sconosciuto di mezz'età, abbigliato con ricche vesti di taglio antico, indumenti prestigiosi degni di un Pontifex. Avanzava cautamente, guidato dalla luce fumosa di una torcia, lungo lo stesso cunicolo nel quale ora si trovavano accalcati Magadone Sambisa e i suoi archeologi, all'esterno del sacrario. Valentine osservò quel Pontifex di tanti millenni prima avvicinarsi al muro bianco e intatto del santuario. Lo vide posarci sopra una mano, come se esercitando una pressione sperasse di penetrare al suo interno avvalendosi solo delle proprie forze. Poi si voltò, fece un cenno a una squadra di operai muniti di picconi e pale e ordinò loro di cominciare ad abbattere la parete.

E a quel punto una figura emerse dalle tenebre, un mutaforma, alto, snello e dall'espressione cupa; fece un grande passo in avanti e con un affondo rapido e imparabile trafisse con un coltello l'uomo con gli abiti pontificali broccati, facendo risalire la lama verso l'alto fino a incontrare il cuore…

«Maestà, la prego!»

La voce di Magadone Sambisa era colma d'angoscia.

«Sì», disse Valentine nel tono distante di qualcuno che fino a un attimo prima era perso in un sogno. «Arrivo.»

Aveva avuto abbastanza visioni, per il momento. Posò a terra la torcia e ne indirizzò il fascio di luce verso l'apertura nella parete, illuminando il tragitto che doveva percorrere. Raccolse con cura i due denti di drago, lasciando che si adagiassero delicatamente nei palmi delle mani e facendo attenzione a non stringerli al punto da attivare i loro poteri, poi tornò sui suoi passi e uscì dal santuario.

Magadone Sambisa lo fissò inorridita. «Maestà, le avevo chiesto di non toccare gli oggetti nella camera, di non disturbare quello…»

«Sì, lo so. Mi perdonerà per quello che ho fatto.»

Non era una richiesta.

L'archeologa si fece da parte ossequiosamente mentre attraversava a grandi falcate il gruppo di persone, diretto all'uscita che lo avrebbe ricondotto al mondo esterno. Tutti gli occhi erano rivolti agli oggetti che Valentine recava nelle mani, appoggiati ai palmi, rivolti verso l'alto.

«Portatemi il khivanivod», ordinò ad Aarisiim. La luce del giorno era quasi del tutto scomparsa ora, e le rovine stavano assumendo l'aspetto ancora più misterioso che prendevano di notte, quando il fresco chiarore delle lune danzava sulle antiche pietre della città distrutta.

Il mutaforma si allontanò di fretta. Valentine aveva ordinato che il khivanivod fosse tenuto ben lontano dal santuario durante l'abbattimento della parete; così, protestando violentemente, Torkkinuuminaad era stato confinato nel campo base degli archeologi, affidato alla custodia di alcuni membri del servizio di sicurezza di Valentine. Furono i due immensi e pelosi skandar a recarglielo ora, reggendolo per le braccia.

Lo sciamano ribolliva di rabbia e odio, che emanavano da lui come gas neri da uno stagno inquinato e pestilenziale. Scrutando quell'antico e spigoloso volto verde, Valentine ebbe una vivida percezione dell'antica magia insita in quel mondo, dei misteri che si estendevano a lui dalla brumosa e lontana alba di Majipoor, quando i mutaforma avevano calcato soli e indisturbati quel grande pianeta di meraviglie e splendori.

Il Pontifex ostentò i due denti di drago marino.

«Sa che cosa sono questi, Torkkinuuminaad?»

Le pieghe gommose delle palpebre dello sciamano si ritrassero. I suoi occhi sottili erano gialli di furore. «Lei ha commesso il più terribile dei sacrilegi e morirà nella più terribile delle agonie.»