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Allorché le popolazioni rurali delle province circostanti avevano appreso dell'orrendo massacro, così narrava la leggenda, erano calate su Velalisier e avevano demolito il tempio presso il quale era stato tenuto il sacrificio. Avevano messo a morte il Re Finale e distrutto il suo palazzo, scacciando i maligni residenti della città e costringendoli a rifugiarsi nella boscaglia, abbattuto l'acquedotto e ostruito con dighe i fiumi che avevano rifornito la città d'acqua, di modo che da quel giorno Velalisier sarebbe stata ridotta a un luogo desertico e maledetto, abbandonato per l'eternità alle lucertole, ai ragni e ai jakkaboles dei campi.

Valentine e i suoi proseguirono in silenzio quando Magadone Sambisa ebbe finito il suo racconto. Avvistarono le sei acute piramidi che erano diventate le più note vestigia di Velalisier, la più vicina delle quali si ergeva da un'area poco oltre il cortile del palazzo del Re Finale, le altre cinque affiancate l'una all'altra a formare una linea retta che si estendeva verso est. «Un tempo ce n'era una settima», disse Magadone Sambisa. «Ma i piurivar stessi la distrassero prima di lasciare la città per l'ultima volta. La ridussero a un cumulo di macerie. Stavamo per cominciare a scavare proprio là, la settimana scorsa, ma è stato allora che… che…» Distolse lo sguardo, incapace di continuare.

«Sì», disse con dolcezza Valentine. «Certo.»

La strada li condusse tra due colossali piattaforme ricavate da gigantesche lastre di pietra azzurra, chiamate dai metamorfi contemporanei Tavole degli dei. Per quanto circondate da resti e rovine accumulatesi nel corso di duecento secoli, si innalzavano comunque sopra la pianura circostante di oltre tre metri e la loro superficie piatta era tanto grande da poter ospitare centinaia di persone contemporaneamente.

Con tono di voce basso e sepolcrale Magadone Sambisa disse: «Sa che cosa sono queste, maestà?»

Valentine annuì. «Sì, gli altari sacrificali. Dove ebbe luogo l'atto sacrilego.»

«Esattamente», confermò Magadone Sambisa. «È questo è stato anche il teatro dell'omicidio di Huukaminaan. Posso mostrarle il luogo esatto. Ci vorrà solo un attimo.»

Indicò una scalinata poco più in là lungo la strada, fatta di grandi blocchi quadrati della stessa pietra azzurra delle piattaforme. Conduceva in cima alla piattaforma più occidentale. Magadone Sambisa smontò da cavallo e la scalò rapidamente. Sostò sull'ultimo gradone e tese una mano a Valentine, come se il Pontifex incontrasse difficoltà nell'ascesa, il che non era affatto vero. Aveva conservato buona parte dell'agilità che aveva avuto da giovane. Accettò comunque l'aiuto, in segno di cortesia, proprio nell'istante in cui lei, rendendosi conto che forse non era permesso ai comuni sudditi toccare la persona di un Pontifex, fece per ansiosamente ritrarre la mano. Valentine si sporse in avanti e gliel'afferrò con un sorriso, tirandosi su.

Il vecchio Nascimonte salì a grandi balzi alle sue spalle, seguito dal cugino e prezioso consigliere di Valentine, il principe Mirigant, che portava in spalla il piccolo mago di razza vroon Autifon Deliamber. Tunigorn rimase giù. Evidentemente quel luogo di antico sacrilegio e infame spargimento di sangue non faceva per lui.

La superficie dell'altare, resa ruvida dal tempo e punteggiata da ciuffi di erbacce e da incrostazioni di licheni rossi e verdi, si estendeva davanti a loro per una distanza stupefacente. Era difficile immaginare che anche una grande moltitudine di mutaforma, esseri longilinei e apparentemente privi di ossa, potessero mai aver trascinato e collocato lì un numero così grande di enormi blocchi di pietra.

Magadone Sambisa indicò una stella a sei punte tracciata sulla pietra con nastro adesivo giallo, a quattro o cinque metri da loro. «L'abbiamo trovato là», disse. «O comunque una parte di lui. E un'altra parte là.» C'era una seconda stella più a sinistra, circa sette metri più avanti. «E qui.» Una terza stella di nastro giallo.

«L'hanno smembrato?» domandò Valentine, atterrito.

«Già. Si vedono ancora le macchie di sangue tutt'intorno.» Esitò un istante. Valentine notò che ora stava tremando.

«Era tutto qui tranne la testa. Quella l'abbiamo trovata lontana, tra le rovine della Settima piramide.»

«Non conoscono vergogna», dichiarò con veemenza Nascimonte. «Sono peggio di bestie. Avremmo dovuto sradicarli tutti.»

«A chi ti riferisci?» domandò Valentine.

«Sa bene a chi mi riferisco, maestà. Lo sa bene.»

«Dunque credi che questo delitto sia opera dei mutaforma?»

«Oh, no, maestà, no!» rispose Nascimonte, con tono sprezzante e provocatorio. «Come potrei pensare una cosa simile? Dev'essere stato uno dei nostri archeologi, non ci sono dubbi. Un caso di gelosia professionale, forse, poiché il mutaforma aveva fatto un'importante scoperta e la nostra gente voleva arrogarsene il merito… È questo che credi, Valentine? Credi che esista un essere umano capace di rendersi colpevole di uno scempio come questo?»

«Siamo venuti a indagare proprio su questo, amico mio», disse amabilmente Valentine. «Credo sia ancora presto per giungere a conclusioni.»

Magadone Sambisa aveva gli occhi spalancati e quasi fuori dalle orbite, come se l'audacia di Nascimonte nel rivolgersi a quel modo al Pontifex, dandogli oltretutto del tu, fosse uno spettacolo che trascendeva la sua capacità di comprensione. «Forse dovremmo proseguire verso le tende, ora», disse.

Gli provocava una sensazione molto strana, pensò Valentine mentre avanzavano verso l'accampamento lungo la strada delimitata da resti di edifici crollati, trovarsi di nuovo lì, in quel triste e inquietante luogo di antiche rovine. Almeno non era nel Labirinto. Per quanto lo riguardava, qualsiasi posto era meglio del Labirinto.

Era la sua terza visita a Velalisier. La prima era avvenuta molti anni prima, all'epoca in cui era stato Coronal, durante lo strano periodo del suo breve spodestamento da parte dell'usurpatore Dominin Barjazid. Si era fermato lì in compagnia del suo manipolo di seguaci, Carabella, Nascimonte, Sleet, Ermanar, Deliamber e gli altri, durante la marcia verso settentrione, al Monte Castello, dove avrebbe riconquistato il suo legittimo trono dal falso Coronal con la Guerra di Restaurazione.

All'epoca Valentine era stato giovane. Ma ora non lo era più. Da nove anni ormai era il sovrano anziano di Majipoor, il Pontifex, dopo aver prestato servizio come Coronal per quattordici. Qualche capello bianco venava la sua chioma dorata e nonostante avesse ancora un corpo d'atleta e la capacità di muoversi con grazia e agilità, cominciava ad avvertire i primi fastidi dell'avanzare dell'età.

Aveva giurato, in quella sua prima visita a Velalisier, che avrebbe fatto rimuovere le erbacce e gli arbusti che stavano soffocando le rovine, inviando squadre di archeologi a scavare nel sito e a restaurare gli edifici crollati. E aveva inteso permettere ai capi metamorfi di partecipare all'impresa, se avessero voluto. Era parte del suo piano di riservare agli indigeni del pianeta, un tempo disprezzati e perseguitati, un ruolo di maggior rilievo nella vita di Majipoor; perché sapeva bene che i metamorfi in ogni parte del pianeta ardevano di una rabbia che ormai faticavano a contenere, e non potevano più essere confinati nelle riserve in cui i suoi predecessori li avevano costretti a vivere.

Valentine aveva tenuto fede al suo giuramento. Ed era tornato a Velalisier anni dopo per verificare i progressi compiuti dagli archeologi.

I metamorfi, tuttavia, si erano rivelati amaramente risentiti per l'intrusione di Valentine nei loro luoghi sacri e avevano interamente boicottato l'impresa. Era una reazione che non si era aspettato.

Avrebbe presto compreso che i mutaforma erano ansiosi di vedere ricostruita Velalisier, ma che intendevano compiere loro stessi l'opera… dopo aver cacciato i coloni umani e tutti gli altri intrusi alieni da Majipoor e aver ripreso il controllo del proprio pianeta. Una rivolta dei mutaforma, pianificata in segreto per anni, era scoppiata solo pochi anni dopo l'ascesa di Valentine al trono. Il primo gruppo di archeologi che aveva inviato a Velalisier non era riuscito a portare a termine altro che una mappatura preliminare del sito, dopodiché era esplosa la Guerra di Ribellione; a quel punto i lavori dovettero essere sospesi indefinitamente.