«E dunque credi che i fantasmi siano capaci di tagliare una persona in cinque o sei pezzi e di spargerli per ogni dove?»
Tunigorn non sembrava affatto divertito. «Non so che cosa siano o non siano capaci di fare i fantasmi», replicò seccamente. «Ti sto solo dicendo quali sono le mie sensazioni.»
«Grazie, vecchio amico mio», disse sinceramente Valentine. «Daremo al tuo pensiero la considerazione che merita.» Poi, rivolgendosi a Magadone Sambisa, disse: «Devo confessarle quali sono state le mie sensazioni oggi, scaturite da quanto lei mi ha mostrato, qui e al santuario della piramide. Ossia che l'omicidio di Huukaminaan ha tutto l'aspetto di essere stato un'uccisione rituale, e che il rito in questione appartenga alla cultura piurivar. Non sto dicendo che è così: sto solo affermando che le apparenze sono queste».
«E con questo?»
«Con questo abbiamo il nostro punto di partenza. Ora credo che dobbiamo passare alla fase successiva della nostra indagine. La prego gentilmente di voler convocare per questo pomeriggio tutti gli archeologi piurivar che fanno parte della sua équipe. Voglio parlare con loro.»
«Uno alla volta o tutti insieme?»
«Per cominciare, tutti insieme», rispose Valentine. «Poi vedremo.»
Il problema era che i componenti dell'équipe di Magadone Sambisa erano sparsi per tutta l'enorme zona archeologica, ciascuno impegnato in un progetto specifico, e lei lo pregò di permetterle di non disturbarli finché non si fosse conclusa la giornata di lavoro. Sarebbe occorso molto tempo per raggiungerli, disse, e ora che si fossero incamminati verso l'accampamento il sole sarebbe ormai stato alto, costringendoli ad attraversare le rovine della città nella canicola di mezzogiorno, anziché rifugiarsi in una delle buie caverne in attesa delle ore più fresche della sera. Li incontri al tramonto, lo implorò. Lasci che portino a termine i loro programmi per la giornata.
Sembrava una richiesta ragionevole. Valentine acconsentì.
Ma il Pontifex fu incapace di mettersi in paziente attesa del tramonto. L'omicidio l'aveva profondamente scosso. Era un nuovo sintomo di quelle strane nuove tenebre che nel corso della sua esistenza aveva visto addensarsi sopra il mondo. Nonostante la sua vastità, Majipoor era da lungo tempo un pianeta pacifico, che offriva agi e abbondanza a tutti i suoi abitanti; e i crimini di qualsiasi natura erano una straordinaria rarità. Eppure, in quell'epoca condivisa da una sola generazione, gli abitanti del pianeta erano stati testimoni prima dell'assassinio del Coronal Lord Voriax, poi dell'usurpazione, diabolicamente concepita, che aveva temporaneamente allontanato dal trono il suo legittimo successore, Valentine.
Ora tutti sapevano che dietro entrambi quei riprovevoli atti si erano celati i metamorfi.
E dopo il ritorno al potere di Valentine, si era scatenata la Guerra di Ribellione, mossa dal rancoroso metamorfo Faraataa, che portò con sé pestilenze, carestie, scontri nelle città, distruzione ovunque e un diffuso senso di panico. Valentine era riuscito infine a reprimere la rivolta prendendosi carico in prima persona di togliere la vita a Faraataa, un atto che Valentine, per natura gentile d'animo, aveva avuto in orrore, ma che aveva dovuto compiere comunque perché così andava fatto.
Ora, in quella nuova era di pace e armonia che Valentine, il Pontifex in carica, aveva inaugurato, un ammirevole e amato anziano accademico metamorfo era stato ucciso nella maniera più efferata. Ucciso nella città sacra degli stessi metamorfi, mentre conduceva un'opera di recupero archeologico voluta da Valentine, tra le altre, per dimostrare il nuovo rispetto degli umani nei confronti del popolo aborigeno che aveva colonizzato con il suo arrivo a Majipoor. E c'erano tutte le indicazioni, fino a quel momento, se non altro, che l'assassino fosse anch'egli un metamorfo.
Eppure pareva assurdo.
Forse Tunigorn aveva ragione nel dire che la fonte di tutto doveva essere una qualche antica maledizione. Una supposizione che Valentine trovava difficile da accettare. Credeva poco alle maledizioni e non era superstizioso. Eppure… eppure…
Passeggiava irrequieto per le rovine della città, sfidando le ore più calde della giornata, incurante del disagio, trascinandosi dietro il suo riluttante seguito. Il gigantesco occhio verde-oro del sole li fissava dall'alto, impietoso. All'orizzonte l'aria appariva increspata dal calore. Gli arbusti dalle piccole foglie della consistenza di cuoio che crescevano per ogni dove tra le rovine sembravano ripiegarsi su se stessi, nel tentativo di nascondersi dalle torride ondate di luce. Addirittura le lucertole di cui le antiche pietre erano infestate si facevano sempre più reticenti a mostrarsi a mano a mano che la temperatura si alzava.
«Ho quasi l'impressione di essere stato trasportato a Suvrael», commentò Tunigorn, ansimando per il caldo mentre teneva doverosamente il passo impostato dal Pontifex. «Questo è il clima delle sventurate terre del Sud, non della nostra verdeggiante Alhanroel.»
Nascimonte gli rivolse un ghigno sardonico. «Un altro chiaro esempio della malevolenza dei mutaforma, mio caro Lord Tunigorn. Ai tempi in cui la città era abitata, fitte foreste verdi si estendevano tutt'intorno e l'aria era fresca e balsamica. Poi venne deviato il fiume, le foreste morirono e qui non rimase altro che le scarne rocce che puoi ben vedere, che assorbono il calore del mezzogiorno e lo trattengono come spugne. Chiedine conferma alla signora archeologa, se non mi credi. Questa provincia fu deliberatamente trasformata in un deserto, al fine di punire coloro che vi abitavano e che avevano commesso un imperdonabile peccato.»
«Un motivo in più per farmi desiderare di trovarmi altrove», mormorò Tunigorn. «Ma no, il nostro posto è qui, al fianco di Valentine, ora e per sempre.»
Valentine udiva appena le loro parole. Avanzava senza una meta precisa, percorrendo viottoli ricoperti di erbacce, passando davanti a colonne cadute e facciate di edifici distrutte, ai gusci vuoti di quelli che forse un tempo erano stati negozi e taverne, alle linee accennate che segnavano le fondamenta di dimore scomparse che un tempo erano probabilmente state grandiose come palazzi. Nessun reperto era etichettato e Magadone Sambisa non era a portata di mano per riempirgli le orecchie con interminabili disquisizioni sulla precedente identità e funzione di quei luoghi. Erano frammenti della Velalisier perduta: sapeva solo questo. Resti scheletrici di un'antica metropoli.
Non risultava difficile neppure a lui immaginare quel luogo come un covo di antichi fantasmi. Un vitreo fulgore di luce che si levava da un cumulo di colonne spezzate… strani rumori che forse erano prodotti da creature, laddove nessuna creatura era visibile… lo sporadico soffio e fruscio di sabbia smossa; sabbia che apparentemente si muoveva di sua spontanea volontà…
«Ogni volta che vedo queste rovine», disse a Mirigant, che in quel momento era il più vicino a lui, «rimango colpito dall'antichità di tutto questo. Dal peso della storia che grava su ogni pietra.»
«Storia che nessuno ricorda», osservò Mirigant.
«Ma il suo peso rimane.»