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«Stupefacente!», bisbigliò l’infermiera dietro di me. «Che devo fare, signore? Intendete ancora portare vostra moglie a Londra?»

«Io… io non so».

Fissai Gerda, abbattuto. Il suo grido di gioia mi aveva fatto sperare, ma ora vedevo che tutto era perduto, poiché l’umore e la salute di Gerda erano stati, negli ultimi ventidue anni, legati a quelli di Zsuzsanna. Se Gerda adesso era giovane, forte e in salute, ciò significava che anche Zsuzsanna lo era… e anche Vlad.

E Gerda stava cominciando a cambiare.

Che cosa aveva fatto il Vampiro per rafforzare se stesso e la sua compagna?

Promisi alla buona Frau Koehler che mi sarei messo in contatto con lei direttamente quando avessi preso la decisione, e la congedai rapidamente per ritornare al capezzale di Gerda.

Gli sforzi per fare uscire mia moglie dalla trance fallirono, così come tutti i tentativi di ipnotizzarla (che sapevo sarebbero stati probabilmente inutili, vista l’ora del giorno). Ma ero deciso a restare con lei per venire a sapere quanto potevo; così chiusi la finestra e mi alzai, pensando di chiudere a chiave la porta alle mie spalle dall’esterno, in modo che Gerda non potesse fuggire. C’erano poche possibilità che lo facesse, dato che avevo legato un crocifisso e l’Ostia sopra lo stipite della porta e della finestra, ma un’ulteriore precauzione mi rassicurava.

Però, prima che oltrepassassi la soglia, lei bisbigliò una sola frase:

«L’Oscuro Signore…».

Sembrava, allo stesso tempo, una domanda e un’ammissione di paura, espressa in un tremolio timoroso eppure strano.

Sulla porta mi gelai, sopraffatto dal terrore, all’improvvisa immagine mentale dell’oscura, divorante creatura del mio sogno.

Chi è questa creatura, e perché anche i Morti Viventi temono il suo nome?

Arminius! Arminius, mio salvatore dei tempi passati, non restare più in silenzio. Aiutami!

Capitolo terzo

Il diario di Zsuzsanna Dracul

3 maggio 1893. È arrivata!

Giacevo nella mia bara dopo essermi svegliata da ore, ma troppo sopraffatta dalla stanchezza per alzarmi; non c’era motivo di farlo, comunque. Mi sentivo come una donna morente che, per l’insistenza di Dio, veniva forzata a vivere oltre la sua ora. Non desideravo altro che essere liberata dalla mia sofferenza.

Mentre giacevo distesa, distinsi delle voci all’interno del castello. Dapprima erano soltanto dei mormorii appena udibili e, nella mia autocommiserante debolezza, non vi prestai attenzione (un tempo le avrei udite distintamente, ma le mie facoltà si erano affievolite al punto che potevo distinguere solo la voce e la cadenza, ma non le parole). Continuarono per un po’ e quindi si avvicinarono, così che riuscii a riconoscerne una: Vlad parlava con quel tono cordiale da ospite, che finora gli ho udito usare soltanto per dare il benvenuto a delle vittime.

E poi udii un’altra voce, una che, per un momento, scambiai per quella di uomo, poiché era profonda, di gola, e così estremamente e sicuramente sensuale, che pensai: Sono innamorata.

Così, ovviamente, immaginai che il visitatore che lui stava aspettando fosse arrivato, ma il pensiero non evocò in me se non una fievole gioia. Sapevo che Vlad avrebbe prima pensato a placare la sua fame, lasciando soltanto gli avanzi per me e Dunya. Se, nella speranza di averne di più, avessi osato interromperlo mentre si nutriva, la sua rabbia avrebbe potuto benissimo spingerlo a negarmi persino una sola goccia di sangue.

Poi ci fu silenzio; o così credo, poiché sonnecchiai per un po’.

Ma ritornai in me immediatamente quando, all’improvviso, l’altra rise: un suono estremamente gioioso che per un istante si innalzò a tal punto da farmi comprendere che stavo udendo, invece, la voce di una donna.

Elisabeth…

Perché la notizia del suo arrivo mi riempiva di eccitazione? Non saprei dirlo ma, certamente, trovai in lei molto, molto più di quello che avrei potuto aspettarmi: e io sono dannata, quindi non oso credere nel pietoso intervento di Dio o del destino.

So soltanto che mi alzai immediatamente dal mio giaciglio, mi precipitai lungo il corridoio, e salii le scale verso le camere private di Vlad, dalle quali proveniva la risata.

Quando arrivai, spalancai la porta senza nemmeno bussare una volta.

Lì, davanti a un caminetto acceso, c’era Vlad, ancora vecchio e con i capelli bianchi, ma chiaramente più vigoroso di quanto non fosse stato di recente. Le sue labbra avevano assunto un colore rosato, le sue spalle non erano più curve ma diritte e quadrate e, per la prima volta nel corso di anni, èra di umore eccellente. Ma, al vedermi, il suo sorriso si spense all’istante e i suoi occhi s’infiammarono. Seppi subito che avrei dovuto nuovamente subire la sua ira per la mia irruzione.

Però non me ne curai, perché il mio sguardo cadde su Elisabeth.

Dire che era graziosa è sminuirla. Io sono graziosa più di qualunque mortale: questo lo so guardando Dunya e i ritratti appesi alla parete (sebbene Dunya dica che gli olii non rendono giustizia alla lucente fosforescenza della mia pelle o al bagliore d’oro liquido dei miei occhi).

Ma Elisabeth! Lei era più che bella: era regale, una vera regina. Indossava un moderno cappello piumato e un attillato vestito di raso grigio blu, al quale si intonavano i suoi occhi di zaffiro; la sua pelle era fine e bianca come quella di un neonato, tranne il rosa tenero che le fioriva sulle guance è le labbra. Portava i capelli legati sulla nuca — sopra un collo da cigno di delicata porcellana, con un seducente incavo alla clavicola — e i riccioli che le ricadevano avanti sopra una spalla, rilucevano al chiarore del fuoco di un oro fulgido come il sole.

Era tanto chiara quanto io sono scura e, in quell’istante, se fossi stata un uomo, mi sarei profondamente innamorata di lei. Anche così, credo di aver gridato leggermente per una sorta di timore reverenziale e, quando lei mi rivolse il suo sguardo intelligente e onnisciente, temetti di svenire.

«Vlad, Vlad…», disse, con una voce profonda come il lago Hermanstadt e soffice come il fumo. «Non mi fai l’onore di presentarmi a questa graziosa signora?».

La richiesta mi fece venire le lacrime agli occhi, poiché sapevo di sembrare un cadavere che cammina, ed ero ben lontana dall’essere graziosa. La sua gentilezza mi commosse, e riuscii ad abbozzare un incerto sorriso mentre Vlad — senza protestare, con mia sorpresa — subito si inchinò e disse:

«Contessa Elisabeth Bathory di Csejthe, posso avere l’onore di presentarti mia nipote, Zsuzsanna Dracul?».

Elisabeth mi tese una mano, avvolta in un guanto blu polvere e meravigliosamente profumata… e, con mio grande stupore, calda. La presi e le feci, con grande difficoltà, una piccola riverenza, mentre lei chiedeva a Vlad:

«E non Tsepesh? Allora, hai completamente eliminato il nome?».

Lui annuì solennemente. La sua rabbia sembrava essere interamente svanita, come se esitasse a rimproverarmi davanti a quella donna, vedendo quanto la mia presenza le facesse piacere.

«Mentre vivevo, ero famoso come l’Impalatore, lo Tsepesh, ma ora che sono un immortale, ho altri interessi, e mi fa più piacere essere conosciuto come Dracula… il Figlio del Demonio».

«Allora il Drago è, in realtà, un Demonio?», chiese la donna con civetteria, poi rise… un suono dolce come il suo profumo. Quindi si fece di nuovo silenziosa e rivolse la sua attenzione a me nell’istante in cui mormoravo:

«La tua mano. È calda… Sei un Vampiro o un essere vivente? Ma tu sei troppo bella per essere mortale…».

Nell’udire queste parole, le sue labbra rosa si curvarono astutamente, e sbirciò di sbieco Vlad da sotto le ciglia dorate, con un’espressione che diceva: Glielo devo dire? Ma lui abbassò lo sguardo con gravità, e io ebbi la sensazione che mi nascondesse qualcosa mentre lei rideva compiaciuta e rispondeva: