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Lei fece un gesto alla donna.

«Questa è la mia cameriera, Dorka; è molto discreta. Dorka, questa è la nipote di Vlad, la Principessa Zsuzsanna. Devi trattarla con estremo rispetto».

Dorka fece un inchino a malincuore, senza sorridere.

«Vai subito a prendere uno specchio», ordinò Elisabeth, con lo sguardo pieno di ammirazione fisso su di me mentre tendeva una mano impaziente alla sua cameriera. Quando Dorka si spostò dal salotto dove ci trovavamo alla camera da letto, la sua padrona disse: «Allora, Zsuzsanna, non ti sei mai vista come un’immortale?»

«Mai».

«Bene, ora ti vedrai», rispose, proprio mentre Dorka ritornava di corsa sbuffando nella stanza con uno specchietto incorniciato in oro fino incastonato di perle e diamanti. La cameriera lo mise nella mano di Elisabeth, poi si ritirò per lasciarci alla nostra intimità. «Guarda, Zsuzsanna. Guarda che cosa sei diventata».

Presi lo specchio ed emisi un grido di piacevole stupore per la donna che vi vidi. No, donna è una parola che sminuisce troppo. Angelo, visione: queste sono parole che descrivono meglio che cosa vidi. Dunya aveva avuto ragione nel dire che il mio ritratto non rendeva adeguata giustizia alla mia bellezza.

Per cinquant’anni non avevo visto la donna dello specchio: una giovane bellezza dai capelli corvini, trecce nere con riflessi bluastri, gli aguzzi denti simili a perle, le labbra di rubino, gli occhi castani che rilucevano di oro fuso. La mia pelle era delicata e di porcellana come quella di Elisabeth, e luccicava dei riflessi della madreperla: rosa, turchese, verde marino. Persino i lineamenti affilati che avevo ereditato da Vlad — il sottile naso da falco, il mento appuntito, le folte sopracciglie nere — erano ammorbiditi fino ad essere delicati e perfetti.

Alzai lo sguardo da quella meraviglia per vedere Elisabeth che sorrideva apertamente in segno di approvazione, come un artista grandemente compiaciuto per la sua creazione. Allungò una mano per prendere lo specchio, ma io non volli lasciarglielo: allora, rise piano.

«Ero tentata di cambiarti i denti», disse. «Ma ho lasciato a te la decisione, nel caso tu li trovassi esteticamente piacevoli».

«Ma io li devo avere! Come potrei nutrirmi altrimenti?».

La sua voce si abbassò come se stesse per rivelarmi un oscuro segreto e temesse che qualcuno potesse udirlo.

«Mia cara, ci sono molti modi diversi di “nutrirsi”, come dici tu, tanti quanti sono coloro che sono abbastanza coraggiosi da raggiungere l’immortalità».

«Ma è Vlad che mi ha creato», protestai. «E il morso di un Vampiro dà vita a un altro Vampiro. Come può essere altrimenti?»

«Può essere in qualunque modo tu voglia, Zsuzsanna».

«Ma come?»

«Il Patto di Vlad con l’Oscuro Signore non ti controlla obbligatoriamente».

Il pensiero di quella misteriosa creatura, Demonio o meno, mi terrorizzava. Abbassai lo specchio e mi ritrassi, bisbigliando:

«L’Oscuro Signore…».

Per distrarmi, mi prese la mano libera e ne premette il palmo contro la mia guancia.

«Dimmi quello che senti, mia cara. Dimmi cosa senti».

Per un intero minuto fui troppo sopraffatta dallo stupore per parlare. Infine, sospirai: «Calore!». I miei occhi si erano riempiti di lacrime: alla fine, una mi cadde sulla guancia, sulle dita. Un lacrima calda!

«Non è più piacevole che essere fredda come un cadavere? Vlad è ossessionato da tutto ciò che è macabro».

«Devi far rivivere Dunya!», gridai, afferrandole il braccio e tirandola verso la bara chiusa. Le restituii quindi lo specchio e spalancai il coperchio svelando l’occupante che dormiva… così avvizzita e fragile.

Elisabeth si avvicinò e guardò all’interno.

«Ah… una dolce, giovane contadina». Alzò lo sguardo su di me. «Devi essere paziente. A te ho ridato piena forza e a Vlad solo una parte; le mie riserve sono diminuite. Ora dovrò riposare, ma ti prometto che me ne occuperò domani».

«Ma non mancano che poche ore all’alba», protestai, desiderosa di restare in sua compagnia. «E poi potrai riposare tutto il giorno…».

«No, sarò in piedi in tempo per godermi il sorgere del sole. Come regola, ho bisogno solo di due ore di riposo: di più quando mi sono sforzata come stanotte. Povera me, bambina, la sciocca convinzione di Vlad che voi siate confinati alle ore della notte ti ha privato di un bel po’ di divertimento».

«Ma è vero… il sole mi fa orribilmente male. Sì… se devo, posso avventurarmi fuori, ma questo mi indebolisce ed è tremendamente spiacevole».

«Non è necessariamente così. Perché non dovresti essere in grado di goderti la notte e il giorno?».

Quella domanda mi rese silenziosa. Ricordai il mio unico viaggio a Vienna un quarto di secolo prima, e la delusione che avevo provato per non essere stata in grado di entrare in una Konditorei e di assaggiare quei dolcetti al burro, o di entrare nei negozi di vestiti, con le loro ammiccanti mode nuove. L’unico vestito che avevo acquistato a Vienna — da un vecchio sarto tremante, quasi cieco, l’unico che accettasse di avventurarsi fuori a mezzanotte verso un hotel per farmi provare — era passato di moda da vent’anni. Guardai il vestito di Elisabeth, con il suo più modesto décolleté, i fianchi stretti, e la gonna più corta, nonché una cascata di tessuto raccolto sul derrière, che non avevo mai visto prima.

«Ma come…», cominciai.

Scosse la testa.

«Abbiamo molto di cui parlare. Non preoccuparti, cara», poiché la mia delusione senza dubbio era visibile, «ci incontreremo ancora domani notte. Fino ad allora…».

Mi prese la mano, si chinò, e la baciò come potrebbe fare un uomo; mentre faceva così, un brivido eccitante e innegabile passò attraverso di me.

Mio Dio, sono davvero innamorata!

4 maggio 1893. Mi svegliai al tramonto e trovai Elisabeth seduta su una sedia accanto alla mia bara aperta: una vista questa che aumentò la mia speranza e la mia eccitazione. Con mio ulteriore diletto (e sorpresa), una sorridente e bella Dunya si trovava accanto a lei.

«Dunya!». Mi alzai con un unico e agile salto dal posto dove avevo dormito. Ci abbracciammo come sorelle, ridendo e piangendo, e io le baciai una guancia… adesso calda come la mia, come le sue forti braccia. «Dolcezza mia! Come sei bella!».

«Non tanto quanto voi, doamna!», gridò.

In verità, mi assomigliava vagamente, con il naso dalla forma sottile, i lunghi capelli scuri (sebbene i suoi fossero baciati dal rosso tizianesco), e gli scuri occhi rumeni pieni di passione, sotto le sopracciglia arcuate.

«Come lo sai?», dissi, prendendola in giro.

Sorridendo, Elisabeth sollevò lo specchio dorato.

Feci scivolare un braccio intorno alla sottile vita di Dunya e mi voltai per offrire l’altra mano alla nostra benefattrice, che si alzò e l’afferrò immediatamente.

«Elisabeth! Sei stata così gentile con noi, così buona! Sicuramente, ci dev’essere qualche dono che noi possiamo farti, qualche gentilezza che possa servire come un pur misero tentativo di ripagarti».

«La vostra felicità è una gioia sufficiente per me».

E, così dicendo, voltò la mia mano per rivelare il palmo, che baciò.

Uh brivido elettrico corse attraverso il mio corpo rinnovato, tanto che lasciai andare Dunya e mi premetti una mano sul cuore, per reprimere l’ansito.

In quel momento la porta della camera si spalancò; sull’ingresso apparve Vlad. Per un istante, temetti che gridasse infuriato nel vedere che io e Dunya eravamo perfettamente in forze. Cercai di ritirare la mia mano da quella di Elisabeth, indietreggiando pronta a fuggire, ma lei la tenne stretta e mi rivolse uno sguardo rassicurante che diceva: non lo sa.