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Con mio grande stupore, Vlad rimase sulla soglia, e la sua espressione era di benevola cortesia.

«Ah, cugina! Vedo che hai avuto pietà delle nostre fragili signore. Ho preparato un banchetto per il tuo piacere. Ti attende nella grande sala da pranzo, dove ti raggiungerò tra qualche minuto. Ora vai. Ho bisogno di parlare brevemente con Zsuzsanna, in privato».

Provai una nuova ondata di sgomento quando Elisabeth fece un piccolo inchino e lasciò la stanza, e ancora di più quando udii i suoi passi riecheggiare lungo il corridoio, e poi per le scale.

Lui rimase sull’uscio a guardarla, con gli occhi che si storcevano per lo sforzo (era evidente che né la sua vista né il suo udito erano pari ai miei). E, quando lei si trovò a quella che lui credette una sicura distanza da noi, entrò e chiuse dietro di sé la pesante porta. Studiai la sua espressione, cercando di giudicare da essa se mi vedeva come una vecchia rugosa o come una bellezza, ma non riuscii a scorgervi stupore, né rabbia, ma soltanto astuzia.

Un’ombra d’uomo, vecchio e brutto! Ero stata pazza per tutti quei decenni: a cosa gli servivo?

Improvvisamente domandò:

«Zsuzsanna, mi ami?».

Esitai un solo istante. In quel breve istante, egli comprese il mio silenzio fin troppo bene, e la sua espressione si rabbuiò mentre continuava:

«È stata Elisabeth! Ti ha raccontato delle bugie. Ti ha posto sotto il suo incantesimo, e ti ha fatto innamorare di lei. Ha promesso di ridarti la forza, non è così? Ti avverto: cospira con lei, e ti avvierai su un sentiero pericoloso che può finire soltanto con la tua distruzione».

Protestai, con le guance che mi si infiammavano (una sensazione da tanto tempo dimenticata!).

«Mi minacci?», gli chiesi.

Ma lui continuò a tuonare, inconsapevole della mia bellezza o delle mie parole.

«Sai chi è? Sicuramente non te lo ha detto. È la “Tigre di Csejthe”, l’assassina di vergini… Durante la sua vita mortale, torturò a molte seicentocinquanta vergini e fece il bagno nel loro sangue; senza dubbio la cifra sarà aumentata di dieci volte da quando è passata nella Morte Vivente. Non puoi credere a nulla di ciò che dice!».

«Sei un bugiardo!», replicai, poi mi meravigliai in silenzio per la mia stessa audacia. Non avevo mai osato parlargli così; sapevo che avrebbe significato la mia rovina, poiché avevo sempre creduto che soltanto lui controllasse la mia vita e la mia morte. Ma sapevo anche che, alla fine, io ero più forte di lui. Se mi avesse colpito in quel momento, lo avrei ucciso.

Una tale libertà! Risi, ubriaca del potere di non avere paura.

Infatti lui mosse il braccio per colpire, ma si fermò all’improvviso a mezz’aria davanti al mio viso, ostacolato da una forza invisibile (ah, Elisabeth, mia potente salvatrice!). I suoi occhi divennero rossi per la rabbia e aprì le labbra emettendo un basso ringhio lupesco, il viso contorto come una maschera di Medusa.

«Stai lontana da lei, Zsuzsanna! Stalle lontana, o sarò costretto a vendicarmi!».

Non dissi nulla, lo guardai soltanto girare sui tacchi e uscire come una furia, sbattendo la porta dietro di sé con tale forza che essa vibrò per parecchi secondi.

Dunya si avvicinò per starmi vicino; penso che fosse rimasta nascosta dietro di me per tutto il tempo, in preda alla paura. Mi mise una mano leggera sulla spalla e bisbigliò:

«Doamna. Pensate che possa veramente farci del male se vediamo ancora Elisabeth? Lei è così gentile…».

Di nuovo le feci scivolare un braccio intorno alla vita, ma fissai davanti a me la porta di legno che vibrava.

«Che vada all’Inferno!», dissi lentamente. «Che vada all’Inferno!».

Capitolo quarto

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

5 maggio 1893. Mi svegliai da un dolce sogno al suono della voce della mia cara madre morta che chiamava piano:

Svegliati, Zsuzsanna. Svegliati, bambina: è quasi mezzogiorno…

Aprii gli occhi, non sul viso stanco di mia madre, ma sul volto delizioso e giovane di Elisabeth. Questa volta indossava un grazioso vestito di tessuto moiré color crema, con uno stretto collo alto di merletto rigido che le incorniciava un décolleté più audace.

Sorrisi al vederla, ma poi la mia espressione si mutò in stupefatto timore nel realizzare che dietro di lei una gialla lama di luce solare entrava attraverso la finestra senza imposte.

E non mi arrecava dolore, né mi sentivo, in nessun modo, indebolita da essa.

Queste rivelazioni mi fecero spalancare gli occhi ancora di più, ed emersi ancora una volta dal mio lugubre luogo di riposo con un salto, affrettandomi alla finestra per guardare, senza chiudere gli occhi, la bella giornata. Sopra, in un cielo blu intenso, il sole splendeva.

«È mezzogiorno», gridai, e girai su me stessa, a bocca aperta ma sorridente, fissando Elisabeth con lacrime di gratitudine. «Com’è possibile?».

Lei mi restituì il sorriso e, invece di rispondere alla domanda che le avevo posto, disse:

«Mi vuoi accompagnare a prendere un po’ d’aria fresca?». Alla mia esitazione, aggiunse: «Vlad sta dormendo, come sai. Mi sono assicurata che non senta niente. Ora ci potremo incontrare solo durante il giorno — ogni giorno, se vuoi — e lui non lo saprà mai».

Le credetti piena di felicità, poiché ricordai che la notte prima lui non aveva percepito la mia bellezza. In risposta le afferrai il braccio, e insieme corremmo ridendo giù per la scala chiocciola attraverso il grande ingresso, uscendo poi dalla grande porta chiodata nella meravigliosa aria aperta.

Sui gradini Elisabeth rallentò e lasciò andare la mia mano. Io scesi correndo fino a terra e mi tolsi le scarpe. Nell’istante in cui i miei piedi nudi toccarono la soffice erba fresca, non riuscii più a resistere: aprii le braccia come delle ali e girai in cerchio come un bambino eccitato che sia rimasto al chiuso per un lungo inverno desolato.

Una primavera così inebriante! I susini in fiore profumavano, e gli ampi prati erano disseminati di fiori selvatici: campanule, papaveri rossi, margherite, alisso della neve. L’aria risuonava degli allegri richiami degli uccelli: allodole e pettirossi, e non del canto malinconico dell’usignolo, né del grido lugubre del gufo, l’unico canto di uccello che io abbia udito per mezzo secolo.

Mentre giravo su me stessa in gioioso delirio, chiusi gli occhi e alzai il viso al cielo… al sole, la cui calda e carezzevole luce sul mio volto mi sembrò, in quel momento, più deliziosa, più preziosa di qualunque cosa di cui io abbia fatto esperienza come immortale.

Quando infine caddi in preda alle vertigini, ridendo, sul terreno fresco accanto a una macchia di delicati fiori intricati, mi voltai sulla schiena per fissare le nuvole nel cielo turchese e gridai alla mia benefattrice:

«Elisabeth! Sei stata così buona con me! Mi hai restituito la bellezza, la forza… e ora mi hai restituito il mondo intero!».

Poiché era questo che sentivo: che ero stata confinata nella notte, vivendo solo metà dell’esistenza. E ora l’altra metà della vita mi era stata restituita.

«Posso fare qualcosa per te in cambio?»

«Puoi dividere con me il giovane ospite».

«Un ospite?».

Mi misi subito a sedere, premendo le dita dietro di me, sull’erba, nel terreno umido, e la fissai. Si era seduta su un gradino, incurante delle convenienze come un ragazzino, con le ginocchia aperte, un gomito poggiato sopra una di esse, e il mento sorretto dal palmo della mano.

Accarezzata dalla brezza calda, la lucente gonna color crema ondeggiava sulla pietra sporca, ma la persona che la indossava apparentemente non aveva paura che si sporcasse. La sua espressione denunciava che non condivideva il mio selvaggio entusiasmo per lo scenario; per lei, era qualcosa di normale. Quello che la divertiva era la mia gioia, poiché il suo sguardo era fisso solo su di me, e sorrideva con il sorriso leggero, divertito, di una padrona che guarda il suo cagnolino fare le capriole spensierato.