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«Mio Dio!», esclamò con un educato tono baritonale inglese e, muovendosi veloce come un morto vivente, si tirò le coperte fino al mento e le tenne lì, con gli occhi sgranati, il viso e le orecchie di un incredibile rosso. «Signore, mi avete sorpreso in una condizione terrìbile.

Non ne potei più; mi misi le mani sulla bocca ridendo piano. Prima che riuscissi a riprendermi per rispondere, Elisabeth disse, in eccellente inglese (cosa che non mi avrebbe dovuto sorprendere più della sua scioltezza con il rumeno, poiché gli ungheresi mortali, di solito, hanno la padronanza di dieci o venti lingue, prima ancora di diventare adulti):

«Le nostre scuse, signore, per l’intrusione!». E fece una profonda riverenza, con l’espressione tanto solenne quanto la mia era divertita. «Abbiamo cercato di svegliarvi bussando e non ci siamo riuscite. Il padrone», e a questo punto le gettai uno sguardo stupefatto e divertito che ignorò del tutto, «ci diede, ieri, ordini severi per portarvi a fare il bagno, non più tardi dell’una di questo pomeriggio, e di fare in modo che ne siate soddisfatto. Sono venuta a dirvi che tutto è pronto. L’acqua non resterà calda a lungo. Vorreste gentilmente venire con me, signore?».

Lui esitò, spostando lo sguardo da me a Elisabeth, improbabili cameriere tutte e due: io con i miei capelli scuri sciolti che mi scendevano fino alla vita, nel mio grigio vestito viennese di seta lavata, vecchio di vent’anni e logoro fino a essere quasi a brandelli, ed Elisabeth nel suo bel vestito color crema.

Ed entrambe di una bellezza ultraterrena!

Vidi che era sul punto di rifiutare, ma Elisabeth si accorse della sua riluttanza e disse subito:

«Per favore, buon signore! Il nostro padrone è severo e soggetto a scoppi d’ira; se scopre che avete rifiutato, sicuramente ci batterà a sangue».

Questo gli fece socchiudere gli occhi e balbettare, cercando disperatamente una scusa appropriata; ma tutto ciò a cui poté pensare fu:

«Che barbaro!».

Allora Elisabeth si fece più audace e lo tirò gentilmente per la manica di lana, con la voce turbata da finto terrore (mentre io mi mordevo entrambe le labbra e lottavo per mantenere un’espressione sobria; mi stava diventando più facile, poiché il mio divertimento veniva rapidamente sopraffatto dalla fame).

«Per favore, signore. Venite con me!».

Lo sconforto dell’uomo era completo, ma la gentilezza riflessa nei suoi occhi ebbe la meglio.

«Benissimo, signorina», disse. «Ma, per favore, aspettate fuori dalla porta finché non avrò preso la mia giacca da casa».

Lei accondiscese, ed entrambe ci ritirammo per consentire all’uomo la sua privacy ma, dietro la porta chiusa, ci abbracciammo e poggiammo la testa l’una sulle spalle dell’altra ridendo sommessamente.

Di lì a poco, udimmo lo sconosciuto avvicinarsi alla porta; prima che l’aprisse, eravamo di nuovo due serve dalla faccia impassibile. Ora era vestito con dignità, con pantaloni lunghi, pantofole di pelle, la giacca da casa di lana dal collo di velluto nero, e una cintura di velluto in vita. I suoi riccioli castani erano bagnati e pettinati ordinatamente, ma le guance erano ancora ben colorite mentre diceva a Elisabeth e a me:

«Benissimo, signore. Conducetemi al bagno».

Così facemmo, camminando in silenzio verso le stanze di Elisabeth, finché il nostro compagno parlò.

«Devo confessarvi, signore… che voi non siete vestite come delle cameriere».

Nell’udire ciò io sorrisi, ma Elisabeth disse molto seriamente:

«Dovete sapere, signore, che il nostro padrone sa essere, a volte, molto crudele, ma anche molto generoso».

Dovetti di nuovo reprimere una risata.

Il gentiluomo accettò la spiegazione con un cenno del capo, e noi continuammo senza più parlare fino a che arrivammo nella stanza di Elisabeth.

Dorka attendeva all’interno con parecchi grandi teli da bagno sulle braccia e disse alla sua padrona in ungherese:

«Ho preparato il bagno».

Elisabeth annuì mentre prendeva degli asciugamani, poi si voltò per fare un cenno all’ospite.

«Qui dentro, prego, signore».

Lui ci seguì con un’espressione di crescente imbarazzo e, quando arrivammo all’interno della camera da letto — nel cui centro attendeva una vasca di ferro rotonda con i piedi a forma di artiglio, piena di acqua fumante — ci disse di fermarci.

«Signore, vi ringrazio per il vostro aiuto. Ciò sarà sufficiente, grazie».

E fece un cenno per congedarci.

Elisabeth lo guardò, colpita.

«Ma signore… se io non eseguo esattamente gli ordini del mio padrone… lui ci ha detto di assicurarci che voi siate soddisfatto».

Con malvagio divertimento, raccolsi il suo suggerimento e mi avvicinai a lui; con una sola tirala, sciolsi la cintura della sua giacca da camera, che si aprì rivelando la lunga camicia da notte infilata nei pantaloni.

Tutti gli uomini di questa epoca sono così puritani? Lui si ribellò richiudendosi la giacca e disse con stizza:

«Beh! Questo è molto sconveniente, e io sono fidanzato!».

Poi Elisabeth entrò e, incurante delle sue indignate proteste, gli tolse la giacca nell’istante in cui io gliela aprivo di nuovo. L’inglese, senza giacca, lottò per liberarsi, ma noi eravamo più forti e lo tenemmo saldamente.

«Non siate così pudico, signore!», gli disse Elisabeth, con una tale sincerità che io fui quasi convinta che fosse una serva che agiva per ordine di Vlad. «È l’usanza del nostro paese che le donne assistano gli uomini nel fare il bagno».

E, mentre lei gli teneva ferme le braccia da dietro, e lui si lamentava piano per lo sgomento, io m’inginocchiai, gli sbottonai i pantaloni, e glieli tolsi. Sotto c’era un paio di mutandoni da uomo di seta, lunghi fino al ginocchio. Rapidamente glieli sfilai, mentre l’inglese gridava dall’orrore; poi vennero via le pantofole di pelle, una alla volta.

Mi restava un’ultima sfida: la lunga camicia da notte. Elisabeth liberò dapprima un braccio, poi l’altro, mentre io, con rapidità, gli sfilavo la camicia da notte dal viso ora color melanzana, rivelando finalmente la sua nudità. Subito, lui si chinò su se stesso per l’imbarazzo e lo sgomento in un patetico tentativo di nascondere il suo corpo alla nostra vista; se le sue mani fossero state libere, senza dubbio si sarebbe coperto le parti intime.

Elisabeth fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione e mi si rivolse in rumeno. «Questi vittoriani… troppo vestiti! Non è salutare». All’ospite, disse poi in inglese: «Nella vasca, signore!».

Lui non si mosse per obbedire e così, sempre tenendogli le braccia dietro alla schiena, lei lo sollevò e lo depose nell’acqua fumante.

Lui vi entrò con un breve grido per il caldo bruciante e rimase sulle prime in punta di piedi, nell’acqua che gli arrivava alle cosce. Ma presto la decenza vinse la paura e, emettendo un gemito, si rannicchiò nella vasca. Subito l’acqua coprì tutto tranne la testa e il collo; questi erano velati dal vapore che si alzava. Si portò quindi sul lato vicino a noi che, in effetti, nascondeva il resto di lui alla nostra vista.

Dal bordo della vasca, Elisabeth prese una saponetta — fine sapone francese, fragrante di profumo — e, con aria severa, gliela porse.

«Lavatevi, signore», gli disse.

Sempre rannicchiato, lui stese un braccio gocciolante e la prese. Seguì un divertente momento di indecisione, in cui la sua espressione comunicò ogni suo pensiero: come avrebbe dovuto portare a termine quel compito davanti a quegli sguardi femminili? Il buon senso indicava che si doveva alzare per fare un migliore uso del sapone ma, ancora una volta, la pudicizia prevalse. Rimase rannicchiato nell’acqua fino al collo, e in questo modo si passò il sapone dappertutto.