Era la trasgressione del nostro amore che mi riempiva di un fuoco più caldo di quello che avessi mai conosciuto? Mi protesi per premere un palmo contro la sua schiena, e l’altro contro la sua nuca, quindi la tirai verso di me. Fu in quel momento che ebbi un’altra rivelazione: oggi, per la prima volta nei miei ottant’anni di esistenza, avevo fatto esperienza dell’amore nel vero senso della parola… carne calda contro carne calda.
Lei mi baciò il viso, i seni, il ventre, usando la lingua per pulire ogni parte con grazia sensuale e consapevole. Poi si alzò e si avvicinò nuovamente alla ferita dell’inglese; ancora una volta, intinse le dita nel suo sangue.
Gridai piano quando lei (le mani mi tremano talmente al ricordo, che posso appena scrivere) mise quelle dita insanguinate tra le mie gambe e ripulì il sangue nel posto dove l’inglese era stato poco prima. Poi con quelle dita penetrò dentro di me e si chinò di nuovo per leccarmi via il sangue.
Ricordo poco altro tranne l’istante in cui caddi fuori dal mondo in quel grande e glorioso abisso di piacere, talmente poco consapevole delle mie urla che sembrava come se le avesse emesse qualcun altro.
Ma mentre giacevo con gli occhi chiusi, disfatta dal piacere, udii le sensuali grida di qualcun altro: era Elisabeth, la mia cara Elisabeth, che giaceva accanto a me. La accarezzai allontanandole i riccioli bagnati dalla fronte finché si riprese e aprì gli occhi blu per sorridermi.
Mi chinai e la baciai teneramente. Poi intrecciammo le braccia e restammo abbracciate a lungo in silenzio.
Finalmente ho ciò che Vlad mi promise tanto tempo fa ma che non mi ha dato mai: un amore eterno.
Quando infine ci alzammo, abbassai lo sguardo sull’inglese addormentato e vidi che le ferite inflitte sulle sue spalle erano completamente guarite.
Elisabeth mi condusse nel salotto, dove vi erano una mezza dozzina di grossi bauli accanto a un’altra mezza dozzina di valige, e ne aprì una. Per sé prese una stupefacente vestaglia giallo pallido bordata di un ampio merletto; per me, una vestaglia di raso blu elettrico bordata di velluto nero. Insieme ritornammo nelle mie stanze. Nell’aprire la porta mi fermai ed esclamai sgomenta:
«E Dunya? Abbiamo dimenticato la povera Dunya!».
Elisabeth mi diede dei colpetti sulla spalla, con fare rassicurante.
«Avrà molte più possibilità: finché sono qui, non può morire di fame, dimenticata, a prescindere da quello che Vlad potrebbe fare, ma per ora, mia cara, è meglio che nessun altro sappia dei nostri incontri segreti».
Sospirai con riluttante sottomissione sebbene, in effetti, considerassi estremamente egoista negare alla mia fedele serva la possibilità di nutrirsi.
Al vedere l’infelicità nei miei occhi che tenevo bassi, Elisabeth mi mise un dito sotto il mento e lo sollevò teneramente finché i nostri sguardi si incontrarono.
«Ora vai a riposarti», disse per consolarmi, «e, quando verrà la notte, ti alzerai ancora in modo che Vlad non sospetti. Dubito che ci permetterà di incontrarci, ma ti prometto che farò tutto il possibile per convincerlo che tu e Dunya dovete nutrirvi. E, se sarà d’accordo, allora tu potrai darle tutta la tua cena».
Fermandosi, mi sfiorò le labbra con il più leggero dei baci.
«In quanto a te, mia cara… domani, se ti fa piacere, guarderemo il sorgere del sole insieme».
Il pensiero mi rallegrò talmente che gridai:
«Oh, Elisabeth! Ti amerò per sempre!».
E, nell’udire ciò, lei sorrise.
9 maggio 1893. Ancora una volta, mi sono svegliata al suono della voce di Elisabeth e alla vista del suo splendido viso.
Ricordo a malapena la notte scorsa, tranne che fui troppo felice nel vedere che, come Elisabeth aveva detto, Dunya sembrava e si sentiva ancora forte. Questo mi fu di conforto, poiché mi sentivo ancora in colpa per non averla invitata a nutrirsi ieri.
Ah, ma poi ricordai il mezzogiorno di ieri — e lo ricordo ora — e ogni volta che lo faccio, arrossisco. La notte scorsa non ho visto Elisabeth; sospetto che Vlad abbia voluto tenerla con sé per mancanza di fiducia e, per amor mio, lei non ha voluto disobbedire al suo ordine di evitale la mia compagnia.
È bene anche che non l’abbia vista allora; poiché, persino in presenza di Vlad, non sarei stata in grado di controllare la mia gioia alla vista di lei.
«Mia cara», disse Elisabeth piano, e allungò la mano nella bara per accarezzarmi la fronte e una guancia, teneramente, così come una madre accarezzerebbe un figlio. «Mi addolora così tanto vederti dormire in questo… questo aggeggio! I limiti di Vlad non sono i tuoi, sebbene lui possa volere che tu lo creda. Non vuoi stare nel mio letto?»
«Farò qualunque cosa ti faccia piacere».
Le presi quindi la mano che aveva poggiato sulla mia guancia e la baciai.
«Sarò molto contenta di averti con me».
La sua frase mi fece piacere ma, in verità, non l’ascoltai che con metà della mia attenzione, poiché stavo guardando oltre lei, la finestra aperta, e vi vedevo i primi rosei raggi dell’alba che filtravano attraverso nuvole grigio-perla.
Ansiosa come un bambino, mi voltai verso di lei.
«Possiamo uscire? Adesso? Voglio vedere l’alba!», dissi.
«Sta piovigginando, temo e, da un momento all’altro, comincerà a piovere più forte».
Si toccò con una mano i riccioli d’oro attentamente acconciati come se la sola menzione del tempo potesse rovinarli.
«Non importa! Tu puoi restare qui: io voglio solo uscire e stare lì».
Alle prime tre parole, gettò indietro la testa e rise con indulgenza, poi continuò a sorridere finché non ebbi finito.
«Verrò con te, mia cara. Non avevo capito che ti sentissi così forte. Ma, se tu lo desideri, allora sarà fatto!».
Così le presi la mano e uscii dal mio macabro luogo di riposo: insieme camminammo lungo lo stesso percorso che avevamo preso il giorno precedente. Il suo vestito di seta gialla e il vestito di raso blu scuro che mi aveva dato, strusciavano piano contro il pavimento. Mentre camminavamo, lei si voltò verso di me con un’espressione di innegabile apprezzamento per il mio corpo, e disse:
«È veramente bello su di te, cara. Lo puoi tenere, e voglio che tu scelga qualcuno dei miei vestiti da indossare: Dorka potrà apportare le modifiche necessarie».
«Sei così gentile, Elisabeth!».
Mi sentivo letteralmente bruciare d’amore, come se il mio cuore fosse una grande fornace, finalmente accesa.
«E tu sei così bella, mia Zsuzsanna…».
Infine arrivammo alla grande porta di legno e ferro, e la spalancammo. Respirai immediatamente la fresca aria umida e mi meravigliai per la pioggerella che cadeva. Fuori c’era un paesaggio grigio, e un cielo coperto di nuvole.
È vero, fui delusa… per quanto bella potesse apparire la pioggerella, simile a diamanti luccicanti nella luce del sole. Anche così, ero contenta solo perché stavo all’aperto durante il giorno, e avanzai, volendo solo restare lì a sentire l’acqua fresca contro il viso, contro la pelle.
Ma, quando cercai di oltrepassare la soglia e correre lungo le scale, gridai per una delusione più profonda; infatti, per quanto provassi, non riuscivo ad andare oltre l’entrata, trattenuta da una forza invisibile.
Non potevo uscire. Sconvolta dalla disperazione, guardai Elisabeth in cerca d’aiuto.
Quello che vidi mi sorprese molto.
Anche lei stava sulla soglia e, pronunciata una veemente maledizione in ungherese, batté il piccolo piede calzato. Mentre guardavo, il bianco dei suoi occhi divenne scarlatto, rubino contro zaffiro, un contrasto stranamente accentuato dal pallore della sua pelle. È stata l’unica volta che l’ho vista con un aspetto sgradevole, e mi sorprese molto.