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«Elisabeth? Chi è?».

Senza dubbio, il chi è si riferiva a quella che era venuta, ma attesi una descrizione più specifica.

Cadde in silenzio e strinse le labbra, come se fosse decisa a non rispondere; temetti che il nostro incontro fosse giunto a una fine prematura. Ma poi rispose piano: «La mia più cara amica…», e non volle dire altro sull’argomento, nemmeno se Elisabeth fosse una mortale o meno (non può esserlo, naturalmente, se è in grado di far recuperare tanto facilmente la forza a Zsuzsanna. In tutta franchezza, ciò mi terrorizza. Che tipo di immortale è, se è più potente persino dell’Impalatore? E come potrei sperare di sconfiggere una tale creatura?).

Insistetti ulteriormente.

«E ora sei in grado di lasciare il castello?».

Immediatamente — con mio sollievo — la sua espressione si rabbuiò.

«No», disse, con evidente rabbia. «Ma lo farò presto, quando andremo a Londra».

Londra! Il mio cuore cominciò a battere forte contro lo sterno come se chiedesse prepotentemente di uscire. Mio padre, Arkady, mi aveva raccontato che Vlad aveva espresso il desiderio di andare in Inghilterra circa cinquant’anni prima, a Londra, dove non è conosciuto e temuto, e c’è un numero molto più grande di potenziali vittime.

Posi alcune altre domande ma, in verità, non ricordo le risposte che diede, poiché ero troppo scosso dal sapere che Vlad e Zsuzsanna — e chiunque questa Elisabeth potesse essere — sarebbero presto fuggiti.

Così, stanotte, ho eseguito un rito formale per trovare una guida e un aiuto e, per la prima volta, ho cercato di evocare Arminius, così come uno potrebbe evocare un dio o un demonio. Con mio disappunto, lui non è apparso, e così ho eseguito nel Cerchio una magia per trovare una guida.

È chiaro che ha intenzione di partire per Londra, ma non immediatamente. Aspetterò e rimarrò all’erta in attesa di un segnale di partenza.

Ma due carte relative al rito ancora mi turbano: il Diavolo e la Sacerdotessa. La magia mi indica che vogliono dirmi qualcosa su questa misteriosa Elisabeth.

La mia mente ansiosa era concentrata su quei simboli mentre sonnecchiavo al capezzale di mamma, quando mi afferrò il sogno dell’Oscura Creatura nei boschi. Ancora una volta, c’era il mio maestro, Arminius, splendente e chiaro nella sua purezza e gentilezza, servito dal suo familiare, il lupo Archangel. Di nuovo gridai, ma non ottenni ancora nessuna risposta, nessuna consolazione, da colui che mi aveva tanto aiutato nel passato.

Poi venne il momento in cui la Grande Oscurità si avvicinò e cominciò a cambiare forma…

L’Oscurità non cambiò più da lupo a bambino, a uomo. No, questa volta si trasformò direttamente da animale in donna. E l’Oscurità si rischiarò lentamente finché la sagoma nera divenne, invece, piena di colore.

Senza parole, fissai la visione davanti a me: era quella di una donna impossibilmente bella, con i lunghi capelli ondulati che catturavano la luce del giorno come oro filato, gli occhi del blu più profondo del mare. La sua pelle era alabastro baciato dal rosa delicato dell’eterna giovinezza, quel chiarore preternaturale tanto spesso visto sul viso di Vampiri desiderosi di affascinare la preda. Sì, la sua era una bellezza che faceva piangere l’osservatore di ammirazione davanti a tanta gloria, ma io non provai una tale gioia, ma soltanto il terrore più puro.

Nel vedere il mio terrore, lei rise, gettando indietro la testa e scuotendo le onde dorate dei suoi capelli, tanto da farle brillare al sole: brillare come i suoi piccoli denti, innaturalmente bianchi. I canini non erano aguzzi come mi ero aspettato, ma di una dimensione perfettamente normale; quella consapevolezza servì soltanto ad aumentare la mia paura finché, sconvolto, gridai forte.

Mi svegliai sudato e vidi mamma che mi guardava e stringeva debolmente le coperte in uno sforzo confuso di allungare un braccio e di confortarmi.

«Bram?».

La sua voce, fragile e rotta, sembrava una parodia di quella che era stata prima della malattia, ma io mi commossi al vedere lo sguardo di riconoscimento e preoccupazione nei suoi occhi stanchi. Sono occhi radiosi, gentili, pieni d’affetto, del colore dei fiordalisi: l’opposto assoluto di quelli che appartenevano alla donna del sogno, poiché la radiosità di mamma è pura bontà. Ma, poi, mi è diventato difficile guardare a lungo dentro di essi, poiché mi guardano e non mi vedono, come se stessero guardando oltre me, l’Infinito.

«Figlio mio, stai bene?».

Parlò nel natio inglese, poiché negli ultimi mesi sembra avere difficoltà a ricordare l’olandese.

Le presi la mano fredda e sottile e la strinsi tra le mie per riscaldarla, rispondendo anch’io in inglese.

«Sto bene, mamma. Stavo solo sognando».

Il suo viso si contorse all’improvviso per il dolore e, sotto le coperte, le sue gambe si agitarono; sebbene si mordesse le labbra nello sforzo di trattenersi dal gridare, nondimeno le sfuggì un lamento. Compresi allora che era stato il suo grido, non il mio, che mi aveva svegliato. Ma lei era più preoccupata per il mio turbamento mentale che per il suo dolore fisico.

Un’altra dose di morfina sarebbe stata pericolosa; gliene avevo data una dose solo un’ora prima. Così, con molte scuse, seguii il vecchio e saggio adagio medico che riguarda gli anziani e i morenti: se sei in dubbio, esamina le viscere e la vescica. Lo feci rapidamente, grato per il fatto che sia la malattia che il sedativo alleviavano un chiaro senso di imbarazzo: per lei (era fin troppo esausta per curarsene), se non per me. Esaminare un paziente è una cosa, esaminare la propria madre è completamente un’altra.

Quello che trovai mi fece stringere il cuore, poiché seppi che avrei dovuto causarle ulteriore dolore.

«Mamma», dissi con gentilezza, «temo che ti dovrò aiutare ancora. C’è una grande quantità di feci qui, contro le tue piaghe; le dovrò togliere per te».

Con una rassegnazione quasi lucida, emise un sospiro di fastidio, poi fece uno sforzo penoso per voltarsi su un fianco.

«Fai quello che devi».

Così presi la padella e l’unguento e l’aiutai a voltarsi sul fianco: già quello solo era, per lei, tormentoso. Poi feci quanto era necessario, pregando continuamente che Dio o chiunque altro ne avesse il potere facesse in modo che le mie grosse dita divenissero sottili e piccole come quelle di Kalya. Mamma gridò in un modo che mi straziò il cuore e lottò debolmente per spingermi via.

Combattendo contro le lacrime, dissi: «Mi dispiace molto infliggerti questa umiliazione, ma ti infetteresti terribilmente se non togliessi queste feci».

Immediatamente lei gridò:

«No, no! Non le togliere o, certamente, morirai!».

Per un momento, rimasi confuso; poi lottai per trattenere una risata triste a causa della sua osservazione oscuramente comica e del tutto inconsapevole.

«Non preoccuparti, non morirò», la consolai. «Sono piuttosto robusto».

Sembrò trarre da ciò un po’ di conforto e, dopo, gridò solo due volte. Ben presto ebbi finito e decisi di darle una piccolissima dose extra di morfina; ora dorme profondamente e bene, con l’espressione rilassata e riposata di un sonno profondo e senza dolore.

Controllai rapidamente Gerda — che non denotava nessun cambiamento — poi ritornai al capezzale di mamma per assicurarmi che il suo respiro restasse forte e regolare.

E qui siedo ancora nella sedia a dondolo al suo capezzale, ascoltando il debole russare e sapendo che questo suono familiare è qualcosa che presto non udrò più. Eppure ho la sensazione di essere sempre stato seduto qui, che lo sarò sempre, e che le sue sofferenze non finiranno mai.

È chiaro che devo andare presto a Londra e portare Gerda con me, in modo da attendere là quando i Vampiri arriveranno. Non si può permettere loro di essere liberi in Inghilterra: mio Dio, le vittime là sono talmente numerose che essi non sarebbero mai scoperti… non fino a che l’intero paese fosse costituito di Vampiri! La mia responsabilità verso quel luogo supera tutte le altre, persino quella verso la mia famiglia. So questo nel mio cervello, ma il mio cuore sa che sarebbe un crimine lasciare mamma sola in questa casa, a morire in presenza di estranei.