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Bionda Elisabeth, chi sei? E che possibilità ho contro qualcuno così potente, senza l’intervento di Arminius?

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

16 maggio. Per una volta tanto nessuna registrazione; le cose si sono stabilizzate in una monotonia abbastanza piacevole, ma è pur sempre monotonia. Giorno dopo giorno, la nostra routine è consistita nel godere liberamente durante il celestiale regno del sole, gustando a nostro piacimento l’inglese e poi, subilo dopo, godendo di una parentesi sensuale. Dopo di ciò, Elisabeth mi porta nelle sue stanze a scegliere dei vestiti dai suoi numerosi bauli e valige, e Dorka li aggiusta per me; oppure Dorka acconcia i miei capelli in uno stile alla moda (sebbene i miei capelli lisci rifiutino di tenere la minima piega, nonostante i suoi eroici sforzi); oppure Elisabeth mi istruisce nell’arte dei cosmetici. Rossetto, cipria, kajal — non avrei mai pensato che queste sciocchezze potessero aumentare ulteriormente il mio splendore immortale ma, in effetti, lo fanno. Non sono soltanto più bella che mai, ma ho l’aspetto di quella che gli inglesi chiamano la Nuova Donna: sofisticata, moderna, alla moda… e presto, spero, indipendente.

Nel pomeriggio, dormiamo insieme fra la sontuosa biancheria da letto di Elisabeth per una manciata di ore, poi ci alziamo nuovamente al tramonto. Elisabeth, obbediente, se ne va nella stanze di Vlad “a fare una visita”, poiché, apparentemente, lui vuole essere sicuro che lei trascorra poco tempo con me (anche se, talvolta, la lascia andare alcune ore prima dell’alba). Senza dubbio teme che lei mi dica troppo della verità: non sa che è troppo tardi!

Le notti sono il momento più difficile, poiché senza Elisabeth o il nostro inglese, ben poco mi aspetta oltre la noia… e la povera Dunya non ha ancora riacquistato il suo pieno vigore. Dorme tutto il giorno ed è evidente che ha bisogno di nutrirsi. Ma, ogni volta che affronto l’argomento, Elisabeth mi dice che è meglio semplicemente lasciare che la povera ragazza si riposi finché non verrà il momento per tutti noi di lasciare il castello. Sospetto che ridare la forza a Dunya metterebbe troppo alla prova i poteri di Elisabeth, sebbene lei non lo ammetta. Le piace conservare un’aura di onnipotenza e, di fatto, è molto vicina ad essere onnipotente.

Ma se lo è, perché non possiamo partire? È angoscioso restare qui, in questo palazzo in rovina, abbandonato, a pensare alle glorie di Londra! Ad ogni alba vado alla finestra aperta e tendo il braccio per il desiderio di sentire su di esso il caldo e piacevole bacio della luce del sole.

Quanto devo aspettare?

Sospiro, impaziente, scrivendo questo mentre Elisabeth e Dunya ancora giacciono addormentate nel grande letto. Sospiro e scrivo. Basta! Devo mantenere la mia sanità mentale; indugiare sulla mia prigionia servirà soltanto a tormentarmi. E così, adesso che l’inquietudine si è impossessata di me, scrivo…

Ieri mi sono svegliata al primo chiarore del mattino (che strano scrivere ancora questa parola, dopo così tanti anni) tra le braccia di Elisabeth, e ho fissato per un po’ fuori dalla finestra senza persiane mentre la luce grigia diventava di un pallido rosa (avevamo saltato il nostro sonnellino pomeridiano e così avevamo usato le ore più buie del mattino per riposare).

Dopo un po’ il mio amore si è mosso e mi ha guardato con un sorriso insonnolito, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano in piacevole disordine sulle spalle, sulla schiena e sui seni d’avorio. Il calore del suo corpo era piacevole, essendo il mattino fresco. Così rimasi accanto a lei e indugiammo in languida conversazione sotto le coperte. Io, come sempre, chiedevo: «Per quanto tempo? Per quanto tempo?». Ed Elisabeth, come sempre rispondeva: «Presto, presto…».

Ben presto la conversazione cadde su Vlad, e l’atteggiamento di lei divenne notevolmente strano. Si mise seduta di scatto, lasciando che le coperte cadessero (sebbene l’aria del primo mattino fosse fresca) e, con le ginocchia piegate e le lunghe braccia sottili strette intorno ad esse, domandò:

«Hai parlato in precedenza del Patto che Vlad fece con la tua famiglia e con gli abitanti del paese, ma non ho ancora udito niente del Patto che lui ha, di sicuro, con l’Oscuro Signore. Che cosa ne sai?».

Al suono del nome di quell’entità — e all’intensità, dura e brillante come un diamante, dei suoi occhi fissi intensamente nei miei — rabbrividii. Ma risposi onestamente ed esaurientemente: ossia che Vlad aveva offerto all’Oscuro Signore il figlio maggiore di ogni generazione della sua famiglia, che un sacrificio veniva richiesto a ogni generazione per procacciare una rinnovata immortalità a Vlad, e che, nel 1842, mio fratello Arkady aveva (sia come mortale che poi come Vampiro) opposto resistenza nell’espletare il malvagio servizio di Vlad. La seconda morte di Arkady — quella come Vampiro — avrebbe dovuto portare all’immediata distruzione di Vlad, ma non era stato così, perché mio fratello aveva lasciato dietro di sé un erede, che sua moglie, Mary, aveva nascosto. Fino a quando l’erede viveva e restava una possibilità che Vlad potesse consegnare l’anima di costui all’Oscuro Signore al posto di quella di Arkady, Vlad sarebbe sopravvissuto.

La debolezza di Vlad era causata da questo erede — il cui nome era stato cambiato ad opera di sua madre, da Stefan Tsepesh in Abraham Van Helsing, quando lei era fuggita con lui in Olanda — che era stato informato da suo padre, Arkady, della verità sulla sua eredità. E così Arkady aveva istruito Van Helsing nell’orribile arte di uccidere i Vampiri.

Ma Van Helsing, un semplice mortale, non era riuscito ad eguagliare la forza di Vlad, e i suoi sforzi di distruggere il Principe di Valacchia erano falliti miseramente: così il mio caro fratello era morto.

Comunque, il malvagio Van Helsing ben presto aveva scoperto un’altra terribile verità: ossia che, distruggendo altri Vampiri (quelli delle vittime di Vlad non erano stati distrutti nel modo giusto e, in seguito, erano tornati in vita), i poteri di Vlad venivano gradualmente minati. Così, nel corso degli ultimi due decenni dell’attività assassina di Van Helsing, Vlad e io siamo diventati sempre più deboli, fino a diventare i patetici resti che Elisabeth aveva salutato al suo arrivo.

Lei ascoltò affascinata e attenta e, quando ebbi finito, aggiunse:

«È evidente che Van Helsing si stava preparando a venire qui per uccidervi entrambi. Vlad è troppo sospettoso per fidarsi di qualcuno, e meno che mai di me; per lui, chiedere il mio aiuto significa che era terrorizzato dalla morte… Ma che c’è, mia cara! Perché queste improvvise e tristi lacrime?».

Ero completamente sopraffatta dal dolore ai ricordi che mi avevano assalito nel raccontare quella triste storia, e piansi ancora più forte quando lei sollevò una mano e mi asciugò teneramente le lacrime. Singhiozzando, dissi:

«Vent’anni fa ero sola, terribilmente sola, dato che Vlad mi aveva ingannato, e così avevo preso il bambino di Van Helsing, Jan, come mio immortale compagno. Era appena un bambino, appena in grado di camminare e parlare, così dolcemente innocente… e Van Helsing lo ha ucciso!».

Lei mi strinse a sé, dandomi dei colpetti sulle spalle come si fa per consolare un bambino che piange, poi si allontanò e mi tenne con gentilezza per le braccia.

«E questa bestia uccise anche il tuo povero fratello?».

Scossi la testa.

«No. Arkady morì durante uno scontro con Vlad… È qui, nel castello. Lo vuoi vedere?».