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Da quando lei è entrata a far parte dei Morti Viventi, ho cercato consapevolmente di trattarla meno come serva e più come un’eguale, ma c’è, chiaramente, una distinzione di classe che non può essere infranta. Penso che, quando glielo si ricorda, si feriscano i suoi sentimenti. Che inferno sapere che si è condannate a rimanere una domestica per tutta l’eternità! Ma non c’è niente da fare.

Ad ogni buon conto, feci del mio meglio per rassicurarla. Le dissi che avevo chiesto a Vlad di portarci del cibo, che doveva arrivare molto presto. Questo la rincuorò un po’ giacché, sebbene sia un po’ più folte di quanto non fosse prima, la fame l’ha nuovamente indebolita al punto che non può andare a caccia per se stessa (anche se potesse, grazie alla sciocca magia di Vlad, si troverebbe probabilmente intrappolata all’interno del castello, come me).

Ma, proprio mentre finivo il mio racconto, Dunya si mise seduta sulla sedia e alzò il naso per assaporare l’aria.

«Sangue caldo!». Si alzò immediatamente e corse verso la porta della sua camera da letto, seguendo l’odore. «Doamna, c’è un mortale qui!».

Si precipitò fuori verso il salotto a una velocità incredibile. La seguii e la udii trattenere leggermente il respiro quando i nostri sguardi incontrarono, nello stesso momento, l’inglese.

Era seduto alla scrivania con la penna in mano, e stava scrivendo con furia su un piccolo diario al chiarore della lampada e della luna. Eravamo entrambe entrate nella stanza con tale fretta che i suoi occhi mortali non riuscirono forse a percepire il nostro ingresso, ma evidentemente era sensibile, poiché guardò, aggrottando la fronte, nella nostra direzione.

«Dormi», gli ordinai.

Subito si alzò con la penna e il diario nella mano, poi spinse goffamente il lungo divano in un chiaro riquadro di luce lunare davanti alla grande finestra, quella che guarda sul grande strapiombo e la valle della foresta molto più lontano. Subito si distese, fortunatamente sul fianco giusto, perché il russare, che cominciò immediatamente, era meno stertoroso del solito (se è veramente fidanzato, ho pietà della sua povera, futura moglie).

Dunya batté le mani e rise, felice come una bambina a cui viene dato un nuovo dono.

«Com’è bello!», esclamò.

«È un ospite di Vlad», mormorai, mentre assentivo silenziosamente al commento di Dunya. Sveglio, vestito e ben pettinato, sembrava ancora più attraente, e aveva — in giacca, camicia, pantaloni e ricci castani ben impomatati — un’aria da gentiluomo. Aveva anche un principio di barba scura, che dava ai suoi lineamenti da ragazzo una piacevole severità e faceva sembrare la mascella e le guance più magre e scavate.

Cadde così profondamente in trance che il diario e la penna, che fino a quel momento aveva gelosamente stretto in mano, caddero dalle sue dita ora rilassate sul divano. Prima che potessi reagire, il pennino cadde direttamente sul broccato vecchio di secoli e l’inchiostro venne immediatamente assorbito, lasciando una piccola macchia nera che non si sarebbe mai potuta lavare.

«Che ospiti sbadati!», esclamai. «Veramente, non hanno alcun rispetto per la proprietà altrui!».

Feci scivolare la penna nella tasca della giacca, con il pennino rivolto verso il basso. Comunque, presi il diario in mano, sperando di ingannare Dunya e farle credere che non avevo mai incontrato il garbato Mr. Harker.

«Umpf! Che razza di scrittura da gallina è mai questa? Perché non scrive in inglese?». Alzai gli occhi dal piccolo libro in direzione dell’uomo che dormiva. «Bene, lo farai, signore, da ora in avanti», comandai, con la voce di un ipnotizzatore. «Puoi pensare di stare scrivendo in questi bizzarri scarabocchi ma, in verità, scriverai tutto in perfetto inglese. In che altro modo potrei soddisfare la mia curiosità?».

Poi mi chinai e feci scivolare il diario accanto alla penna.

Quando mi alzai, guardai oltre, e vidi la povera Dunya fissare come paralizzata Harker, con le labbra dischiuse, i denti aguzzi e splendenti scoperti, e gli occhi pieni di una fame folle che era dolorosa a vedersi. Ma era ancora trattenuta da una barriera invisibile di paura.

«Non devo!», mormorava: né a me né a Harker, ma a se stessa. «Non devo! Lui mi distruggerebbe…».

Intendendo con “lui”, Vlad, naturalmente, e io aprii la bocca per dire: Non c’è più alcuna ragione di temere Vlad, cara compagna. L’uomo è tuo. Prendilo!

Ma, prima che potessi parlare, sentii, più che udire, il frusciare di gonne morbide contro la pietra, e il ticchettio di piccoli e duri tacchi. E lì, sull’uscio ad arco, stava Elisabeth. Come avevo potuto non sentire che si avvicinava… a meno che lei non si fosse, intenzionalmente, mossa in silenzio.

Con mio sollievo, non era più arrabbiata; invece, era sorridente e allegra, e guardò Harker con divertimento mentre entrava gaiamente, stringendo le gonne.

«Ah! Il nostro inglese sembra perso».

Lasciai Dunya a sbavare sul nostro inatteso ospite e mi avvicinai ad Elisabeth, che mi prese per la vita e mi baciò sulla guancia, come se la sua furiosa partenza non fosse mai avvenuta. Così osai chiederle, in inglese, che per l’ignorante Dunya avrebbe potuto essere anche cinese:

«Non sopporto più di vederla soffrire così o di temere, senza necessità, l’ira di Vlad. Per amor mio, permettile di bere senza conseguenze, come lo hai permesso a me…».

Quasi mi attendevo un nuovo scatto d’ira da parte sua o, per lo meno, un’infastidita ripetizione di come sarebbe stato meglio non chiedere troppo ai suoi poteri finché non fosse arrivato per noi il momento di partire.

Ma era di un umore tanto buono quanto non l’avevo mai vista, e sospirò soltanto con affettuoso fastidio accarezzandomi la guancia con la mano. Un angolo della sua bocca rossa si contrasse rivelando una profonda fossetta di lato mentre si voltava per guardare Harker e la sua disperata ammiratrice.

«Dunya, mia cara! Prendi l’ospite: è tuo. Solo stai attenta e non prosciugarlo fino a farlo morire, altrimenti non sarò in grado di proteggerti dall’ira di Vlad».

Tremando di desiderio e terrore, la piccola serva guardò Elisabeth con gli occhi scuri, grandi e confusi.

«Ma, doamna, se lo faccio, il Principe vedrà il segno!», mormorò.

Mi feci avanti.

«Non lo vedrà. Elisabeth può fare in modo che quei segni scompaiano».

Sul viso di lei, l’ombra lottava con la luce: l’ombra, mentre si chiedeva come io potessi saperlo, a meno che Elisabeth non l’avesse fatto per me, cosa che significava che io avevo tenuto lontana la mia leale compagna dal sangue nutriente, il sangue di quell’ospite; la luce, mentre cercava di reprimere il dubbio e l’ira per concentrarsi, invece, su quella meraviglia che le riportava la speranza, di poter bere a sazietà alla fonte di Harker senza pericolo di punizioni.

Come sempre, l’ira cedette alla fame. Lei si chinò sull’inglese, le cui palpebre si mossero; evidentemente, lui la stava guardando con la stessa piacevole attesa che lei aveva per lui poiché, mentre lei si avvicinava, le labbra dell’uomo si aprirono sensualmente per respirare più rapidamente. I sospiri di lui mi provocarono un caldo e rapido brivido lungo la spina dorsale, alla fine del quale ebbi la sensazione di essere in preda alla fame.

Lei gli si avvicinò sempre di più, con l’aspetto più erotico che io abbia mai visto, finché la sua bocca si spalancò e i suoi denti premettero con delicatezza contro la carne dell’uomo… senza penetrarvi, toccando soltanto. Non penso di averla mai vista così classicamente bella come in quel momento: le sue palpebre si abbassarono per il desiderio, e il suo profilo pallido e fragile risaltò contro quello più deciso e colorito di Harker. Un solo ricciolo di capelli le era sfuggito dalla lunga treccia ed era caduto contro la guancia di Harker, dove si arrotolò come un serpente di un colore nero rossastro.