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Evidentemente si era fissato con Elisabeth, perché non parlava d’altro se non della “ragazza bionda” e della sua massa ondulata di capelli d’oro. Lei aveva preso il posto di Dunya nella sua memoria lacunosa, e aveva impiegato una straordinaria quantità di tempo a descriverla e a sottolineare lo sfogo di rabbia “del conte”. Piuttosto insultante, in realtà, ma da dove aveva preso tutta quella faccenda su «non ami mai»? Tutta fantasia.

Ma il peggiore insulto arrivava dalla registrazione del giorno precedente, una registrazione che doveva stare scrivendo quando Dunya e io lo avevamo sorpreso nel nostro salotto. Mi sono così infuriata che l’ho mandata a memoria:

«Eccomi qui: siedo a un piccolo tavolo di quercia dove, nei tempi antichi, forse qualche bella signora si sedette a scrivere, con molta riflessione e molti rossori, la sua lettera d’amore piena di errori…».

Piena di errori? Piena di errori? Signore, ho evitato di insultare i vostri pietosi tentativi di prosa poetica, né vi ho ripreso nel mio diario per la vostra ortografia scorretta. Mi offendo per l’insinuazione che le donne Tsepesh (o Dracul, o rumene, per quello che importa) non fossero istruite o che perdessero tempo ad arrossire sopra sciocche lettere d’amore. Mia madre, signore, fu una rinomata poetessa, e io da sola posseggo più abilità letteraria di quella che voi e tutti i vostri futuri discendenti insieme possiate mai osare sperare di avere. Non ho mai fatto un errore di ortografia in tutta la mia vita.

Piena d’errori, ma senti!

Riguardo a quello sciocco Mr. Harker, gli diedi un morsetto e bevvi appena il sangue sufficiente ad allontanare la fame; questa volta, evitai ogni rapporto sessuale, poiché avevo ben poco di quel tipo di appetito dopo la lunga e strana notte passata con Elisabeth, Dunya, e il bambino sordo.

Quando ebbi bevuto (molto meno della quantità sufficiente a saziarmi), lasciai Harker e vagabondai nel corridoio. Ero piena di inquietudine, poiché sentivo fortemente la necessità di dire a Elisabeth che non potevo attendere più a lungo di andare a Londra. Ma non riuscii a trovarla in nessun luogo del castello, tranne che nell’unico posto in cui temevo di cercare: le stanze di Vlad.

E se lei avesse ancora rifiutato di lasciare questa prigione, mi ero decisa a tentare quello che, finora, non avevo mai osato nemmeno pensare: uccidere Vlad con il palo. Sì, lui mi aveva detto che i Vampiri non possono uccidersi direttamente l’uno con l’altro, ma lui era riuscito a uccidere mio fratello scagliandogli contro un palo.

Perché non avrei dovuto fare lo stesso con lui? Con la presenza di Elisabeth, ero arrivata a comprendere che ero forte abbastanza da fronteggiare persino l’Impalatore. «Se io sarò distrutto, tu sarai distrutta», mi aveva sempre detto, ma ora io so nel mio cuore che è una menzogna.

Ma prima di poter entrare nel suo inner sanctum, avevo bisogno di rendermi invisibile, di non fare rumore perché, anche nel sonno più profondo, Vlad era capace di sentire il pericolo e di vendicarsi. Così, facendo attenzione, effettuai i necessari procedimenti mentali e le litanie poi, quando mi sentii sicura che non avrebbe potuto scoprirmi, andai.

Salii le scale, muovendomi con tanta rapidità e leggerezza che i miei piedi non toccavano letteralmente il pavimento. Presto arrivai alla grande porta di quercia e ferro e la trovai chiusa a chiave dall’interno; da dentro non proveniva alcun suono. Invece di rompere con la forza il chiavistello e spalancare la porta — cosa che ora potevo fare facilmente ma che avrebbe anche avvertito Vlad della mia accresciuta forza — scelsi piuttosto la circospezione, e restrinsi il mio corpo per passare attraverso la fessura ed entrare nella grande stanza, che era costruita sul modello della sala privata del trono del Principe di Valacchia.

Lì, a ovest, c’era il Teatro di Morte, dove i ferri neri ornavano una parete macchiata di sangue, e le orrende catene della “strappata” (dalle quali una vittima avrebbe potuto dimenarsi, sospesa a mezz’aria) pendevano dal soffitto. Sotto di esse c’era una grande vasca di legno, con l’esterno di quercia ma l’interno del colore del mogano rosso, un’eredità lasciata dal suo precedente contenuto.

Al di là c’era un grande tavolo da macellaio, con la superficie logora e intaccata dai colpi di innumerevoli lame. Questa, a sua volta, era ricoperta da una fila di coltelli di misure e forme diverse e da una di aguzzi pali di legno, alcuni larghi quanto il braccio di un uomo folte e più lunghi di me, altri più corti e sottili, destinati a usi più delicati. Nei giorni felici prima della nascita di Van Helsing, tutto ciò veniva usato per liberarsi degli ospiti morti, in modo da evitare che diventassero dei concorrenti.

Questi strumenti non erano utilizzati da lungo tempo, ma io non ebbi dubbi che rappresentassero il destino che si prospettava per il nostro inglese, senza badare alle false asserzioni di generosità che Vlad aveva pronunciato.

Mi avvicinai ad essi, tentata di armarmi subito e di varcare la piccola porta alla mia sinistra dove mio zio dormiva (questo lo sentivo al di là di ogni dubbio), nella speranza di compiere quell’azione azzardata prima che la mia decisione svanisse completamente, ma un movimento lieve e appena percettibile sulla parete opposta della stanza catturò la mia attenzione.

Doveva essere Elisabeth, ne ero convinta, anche se, quando guardai con attenzione nella direzione del movimento, non vidi e non udii nulla… nulla salvo il trono dell’Impalatore, la predella di legno sul quale esso poggiava, e i tre scalini con, inciso in oro, il motto JUSTUS ET PIUS. Ma sapevo che lei era là, invisibile e impercettibile come me, ma anche la magia più forte non è potente quanto l’amore.

Guardavo con occhi pieni d’amore mentre attraversavo lentamente la grande stanza dell’Impalatore, avvicinandomi centimetro dopo centimetro finché scoprii i confini del suo incantesimo. In un istante fui a parecchi metri di distanza dalla predella e non vidi nulla tranne quello che ho descritto prima. Ma un passo ancora — un solo passo esitante — e l’aria cominciò a vibrare e a offuscarsi come nuvole in una forte tempesta; poi, come un velo, essa si alzò mostrando la mia Elisabeth.

Davanti al grande trono, aveva eretto come altare un doppio cubo di lucida onice. Intorno a questo aveva disegnato un cerchio, sul cui confine mi ero imbattuta, aprendo così gli occhi a quel segreto rituale.

Vestita di un semplice abito nero, come una sacerdotessa, con i capelli dorati che le scendevano sciolti sulla schiena, Elisabeth alzò le braccia in una V davanti all’altare, sul quale si trovavano gli stessi strumenti che avevo visto su quello di Vlad: un pentacolo, un pugnale, una coppa e una candela.

E c’era un bambino morto e coperto di sangue che giaceva accanto a ciocche di capelli color indaco.

Ciocche di capelli miei, compresi con un improvviso brivido di orrore. Ciocche dei miei capelli… e di quelli di Dunya, poiché riconobbi il mio colore scurissimo, dai riflessi blu, e quello di Dunya, dai riflessi rossi. Che tipo di malvagità intendeva compiere contro di noi? E cosa avevamo a che fare con il bambino morto?

Questo non riuscii a capirlo giacché, mentre si voltava verso ovest — ossia verso di me — intonò delle parole in una lingua bizzarra che non suonava come una lingua terrena che potessi riconoscere; ma, a prescindere dalla lingua, ero in grado di riconoscere il mio nome e quello della mia serva. E furono quelli che udii.