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Se non fossi stata spaventata dai suoi poteri e dalla sua ira, avrei rotto il cerchio e mi sarei fatta avanti per chiedere subito una spiegazione, invece rimasi sul perimetro e guardai, cercando di accertare lo scopo di quel rito anche se sapevo di non poterlo fare. Ma qualcosa — o forse qualcuno — mi costrinse a rimanere.

E poi vidi Lui.

Elisabeth aveva finito con le sue litanie e ora attendeva, le mani incrociate sul petto come una penitente, e la testa china. A sua insaputa, dietro di lei, torreggiante come un titano…

Come devo descriverLo? Era del tutto scuro, come un’enorme ombra gettata da una lampada, ma che sembrava del tutto solida. Non riuscii a vedere la Sua faccia o i Suoi lineamenti, eppure aveva entrambi, poiché vidi che mi sorrideva. Né aveva gli occhi, ma io guardai ugualmente dentro di essi. Lui mi conosceva. Mi sorrideva e mi conosceva. E allora seppi, in quel momento, che Lo avevo sempre conosciuto, e non provai paura perché, nel guardare nei Suoi occhi, vidi accettazione, compassione e, di fatto, amore. Un tale amore che vi fui risucchiata, tirata come da una corrente in una oscurità infinita, in una luce infinita, nei Suoi occhi. Poiché Lui e io eravamo il Nulla e Ogni Cosa, l’esistenza e l’annichilimento, il pensiero e la spensieratezza tutto insieme, e tutte le cose e nessuna cosa allo stesso tempo. Quella era un’estasi che andava molto oltre ogni soddisfazione e desiderio fisico e mentre, adesso, vi rifletto sopra, posso onestamente dire che se la Morte fosse uno stato del genere, mi ucciderei con gioia.

Poi tutta la consapevolezza svanì, e caddi in uno stato di incoscienza svegliandomi un po’ di tempo dopo per ritrovare Elisabeth, l’altare e… poteva mai essere l’Oscuro Signore? No! Un Arcangelo, invece, capace soltanto della magia più bianca poiché, quando avevo udito dell’Oscuro Signore e di Vlad che era in riunione con Lui, esso portava solo paura. Ma quella creatura… quella oscura e buona creatura… Posso solo fare congetture. Sono fuggita nella mia stanza e ho scritto tutto, per evitare che il tempo faccia svanire dalla mia memoria quel potente incontro. Per adesso, non ho ancora visto Elisabeth, e ho paura; se lei si è accorta di me dopo il mio svenimento, allora, senza dubbio, sarà nuovamente furiosa.

Ma io devo sapere cosa sta per fare. Se mi vuole tradire, allora la mia morte è comunque assicurata, e io potrei anche affrontarla rapidamente piuttosto che indugiare nell’agonia del dubbio.

19 maggio. È morta, è morta! Come può essere? Come può un essere immortale venire ucciso, tranne che per mano di un essere vivente?

La mia mano trema a tal punto che temo di far cadere la penna, poiché capisco che io stessa non sono più al sicuro.

Oggi mi sono recata alla sua bara, piena di preoccupazione perché il giorno dopo la morte del bambino sordo — il sedici — Dunya, ancora sazia e assonnata, era strisciata via dal letto di Elisabeth fino alla sua piccola bara nelle stanze della servitù e aveva chiuso il coperchio con un tonfo sordo e pesante.

Non è insolito per un Vampiro che si sia riempito dopo una lunga privazione dormire per un giorno, una notte e un altro giorno, per poi rialzarsi fresco e rinvigorito; l’ho fatto io stessa molte volte. Così, quando Dunya non si alzò affatto la notte del sedici, non me ne preoccupai, e quando non riemerse il diciassette, mi dissi: «Si sta godendo un lungo e profondo riposo e, quando la vedrò domani, avrà un aspetto più giovane e forte di quello che ha avuto da decenni».

Il diciotto non si alzò.

«Non aver paura», disse Elisabeth, cercando di confortarmi (non ha mai fatto parola della mia apparizione al suo rito; posso solo supporre che il mio incantesimo per rendermi invisibile abbia avuto successo e che io non sia stata scoperta, poiché, da allora, lei è stata sempre gentile con me). «Dunya è immortale. Chi può farle del male?».

Chi poteva, in effetti?

Questa mattina ho lasciato Elisabeth che dormiva, e sono andata un’ora prima dell’alba nelle tranquille stanze di Dunya. Come sembrava scuro e malinconico lì; dall’esterno proveniva il dolce e alto canto di un usignolo solitario, ma quel mattino sembrava particolarmente lugubre.

Rimasi per un momento nel salotto dove avevamo incontrato il signor Jonathan Harker; i miei timori mi impedivano di andare direttamente nella camera da letto. Il divano si trovava ancora dove l’inglese l’aveva messo: davanti a una grande finestra. Stava lì, di fronte alla foresta, alle montagne, e a profondi burroni che lentamente emergevano dall’oscurità nella pallida e grigia luce dell’alba.

Poi mi feci forza ed entrai nella stanza più interna dove Dunya giaceva nella sua bara chiusa. E, nell’istante in cui oltrepassai la soglia, ebbi una spaventosa rivelazione: Dunya non era lì, non c’era affatto! Ero sempre stata in grado di sentire la sua gentile presenza, poiché lei era del tutto ignorante della magia e dei metodi di autoprotezione (questo a causa dell’insistenza di Vlad).

Per un attimo, mi sentii sopraffatta dall’irrazionale speranza che Elisabeth le avesse, finalmente, conferito dei poteri, che fosse riuscita in qualche modo a fuggire dal castello; ciò fu accompagnato da un terrore altrettanto irrazionale ma vago… vago perché la mia mente non avrebbe permesso l’ammissione di ciò che temevo di trovare. Consumata da quelle due incompatibili emozioni, mi avvicinai alla piccola bara e aprii di scatto il coperchio.

Ossa e polvere!

Ossa e polvere: il suo piccolo e delicato teschio era dell’avorio più chiaro, senza più alcun resto di occhi o pelle, sebbene una lunga e sciolta ciocca di capelli rossicci risaltasse contro il raso bianco sottostante, dal collo alla vita. Era come se fosse veramente morta — come un essere mortale — venti anni prima, e il suo cadavere fosse stato lasciato esposto agli elementi sotto un sole spietato. Il teschio si era staccato dalle ossa del collo e posava sulle ossa della mascella superiore (l’inferiore si era disintegrata), quasi perpendicolare alle secche ossa ingiallite degli arti e del busto. Le braccia erano incrociate sopra le ossa del petto e le costole apparivano in modo ordinato, come se fosse stata sistemata per un funerale, ma le ossa delle gambe si erano staccate e giacevano scomposte.

Penso che gridai; devo aver gridato, sebbene quanto forte e per quanto tempo non so dirlo, poiché tutta la paura scomparve e conobbi soltanto un dolore isterico. E, mentre gridavo, il mio respiro mosse la polvere nella bara — adesso veramente diventava il luogo dell’eterno riposo — facendo sì che si alzasse nell’aria e volasse come la cenere incandescente della pergamena bruciata.

Respirai quelle ceneri, tossii, e piansi a causa loro; per la verità, m’infilai nella bara e strinsi quelle ossa, le baciai, le battezzai con le mie lacrime.

Dolce serva e amica! Leale e discreta compagna! Ricordo con dolore ogni azione che ho commesso contro di te, e so che, adesso, ho mancato al mio obbligo di proteggerti…

Non mi disperai a lungo da sola; nel mezzo dei miei singhiozzi, sentii una calda mano toccarmi la spalla. Sopra di me c’era Elisabeth, con gli occhi che le brillavano per le lacrime, e un’espressione di terrore, shock e pietà. Era nuda, e i suoi capelli aggrovigliati le ricadevano sciolti sulle spalle; sembrava che avesse udito i miei lamenti e si fosse alzata di furia dal letto.

«Zsuzsanna, mia cara!». La sua voce era bassa, più delicata e tenera di quanto l’avessi mai udita, ma io ero troppo piena di dolore e ira per crederle. «Mia cara, cosa è accaduto? Oh, ma questa non può essere… È la povera Dunya?». Immediatamente cadde in ginocchio accanto alla bara e imprecò: «Che sia dannato! Che sia dannato.

Mi voltai e mi misi seduta di scatto, piena di una rabbia abbastanza intensa, forte abbastanza da distruggere l’intero mondo. Non mi importava se offendevo lei, o Vlad, o l’Oscuro Signore, anche se Lui era il Demonio in persona; non mi importava se l’istante seguente anch’io sarei stata ridotta a un mucchio di ossa e polvere. Inveii, volendo soltanto che lei soffrisse come soffrivo io in quel momento.