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Come una schiava obbediente, corsi subito nella stanza di Harker e lo feci cadere in trance. Quando ritornai, trovai Elisabeth che si comportava come una parodia femminile di quegli uomini; appoggiandosi in modo seducente alla finestra aperta, con il vestito e la camicia entrambi aperti e tirati giù fino alla vita, scoperti i seni, cantava una canzone indecente nel dialetto degli zingari agli ammaliati osservatori sottostanti.

La mia prima reazione fu quella di essere un po’ gelosa del suo sfacciato mettersi in mostra davanti a quelle meschine e inaffidabili creature, ma la gelosia fu rapidamente sostituita dal divertimento per l’audacia di Elisabeth e le espressioni comiche sul volto degli zingari maschi.

Quella era la prima volta dalla morte di Dunya che venivo presa dal riso, e questo lo rese ancor più potente; chiudevo la bocca e mi mordevo la lingua nello sforzo di spegnere quella risata che mi montava dentro, ma tutto invano. La risata veniva, nonostante tutto; così rimasi un po’ arretrata rispetto alla finestra in modo da non essere vista, ma se da poter vedere sia Elisabeth che il suo pubblico adorante.

Il suo piccolo spettacolo raggiunse il suo intento; il capo degli tzigani si allontanò immediatamente dal suo posto davanti al fuoco — ordinando agli altri uomini di restare — e arrivò all’entrata del castello. Questa era, in apparenza, chiusa con il chiavistello dall’esterno perché, quando accorremmo per farlo entrare, udii lo strusciare del legno contro il metallo, e poi il risuonare di una spranga di legno che colpiva la pietra.

Sebbene fossimo costrette a restare all’interno, lui non ebbe difficoltà nel varcare la soglia; come un toro innamorato, gettò di lato la pesante porta e corse dritto verso Elisabeth e il suo seno nudo. Le afferrò i seni, uno con ogni mano e, con un allarmante disprezzo per la civiltà, la rovesciò all’indietro sul pavimento freddo.

Con mio stupore, lei non fece resistenza (sebbene avrebbe potuto facilmente resistere, facendolo cadere all’indietro come se avesse sbattuto contro una montagna). Invece si lasciò andare all’indietro ridendo e, quando lui le tirò su le gonne e la sottogonna, rise ancora di più, come se provasse il più grande divertimento, e si lasciò allargare le gambe nude.

Non era un uomo brutto — di fatto i suoi luccicanti capelli dal colore del carbone e il naso aquilino mi ricordarono un po’ mio fratello — ma c’era una volgarità nella sua faccia larga, nel corpo grassoccio e dal petto prominente, nella sua pelle olivastra e lucida e nei suoi baffi incerati ridicolmente lunghi, che trovai estremamente ripugnante.

Quando si aprì velocemente i pantaloni e cadde su di lei, penetrandola, gridando, e stringendo sempre i suoi morbidi seni con le sue grosse e rozze dita, l’intera scena mi colpì come se fosse nauseabonda, e distolsi lo sguardo, pensando di andarmene prima che mi chiamassero per essere la prossima.

Ma, in quel momento, Elisabeth circondò la faccia dello tzigano con le sue mani (così bianche e delicate in contrasto con le guance scurite dal sole) e con forza lo tirò a sé per un bacio. Dapprima lui fece resistenza: quegli sciocchi desideri femminili non dovevano essere soddisfatti, soprattutto non quelli di una puttana che lo aveva tanto sfacciatamente adescato lì per una e solo una cosa! Ma io vidi, di profilo, Elisabeth aprire gli occhi mentre premeva appassionatamente le labbra su quelle di lui, e vidi l’eccitazione dell’uomo diventare sorpresa, poi lentamente farsi vacua e sognante, mentre la sua volontà svaniva.

Nel frattempo, il suo disperato spingere non cessò mai, poiché tutto questo accadde nello spazio di alcuni secondi.

«Zsuzsanna!», ansimò Elisabeth, con il tono chiaro e deciso che segnalava che non avrebbe accettato un rifiuto.

Allora tornai da lei e guardai giù: i suoi superbi capelli erano stati tirati su, ed erano sparsi sopra di lei sul pavimento, circondandola come un alone… o come la pallida falce dorata della mezzaluna. Il grosso tzigano si agitava ancora convulsamente, con il viso ora premuto sul cuscino dolcemente profumato dei capelli di lei, a una lunghezza di mezzo braccio sopra la sua testa. Nel frattempo, lei premeva i suoi palmi contro il petto di lui, tenendolo su con facilità, mentre avrebbe schiacciato e soffocato una donna mortale.

«Non posso, Elisabeth. Io… io non ho cuore per questo».

«Non mi interessa se lo prendi dentro o no, cara, ma mordilo! Per me, per favore!».

«Non ho fame».

«Non c’è bisogno che tu beva! Mordilo soltanto — non lo uccidere — e lascia che il suo sangue mi scorra sul viso…».

Obbedii con un sospiro, muovendomi dietro la schiena madida di sudore del suo impalatore e chinandomi per colpirlo alle spalle. A ciò, lui si irrigidì, ed emise un grido soffocato di terrore ed estasi.

Il sangue era dolce, ma io ero troppo addolorata, troppo confusa, troppo annoiata dalla vita in quel castello, per apprezzarlo. Mi ritrassi, infelicemente compiaciuta di negarmi, infelicemente compiaciuta di soffrire per i crampi della fame, e quindi tornai ad accucciarmi e a guardare mentre Elisabeth leccava la piccola e sanguinante ferita dello zingaro e vi strofinava sopra le guance così come un gatto strofina il naso contro le gambe della sua padrona.

«Tu sei mio», bisbigliò Elisabeth nel suo orecchio. «Tu obbedirai agli ordini di Vlad fino a che non ci danneggino, ma tu sei mio. E così, dopo che avrai portato via il Principe dal castello, tu ritornerai per noi… e dirai segretamente al tuo più fedele amico — facendolo giurare — che, se tu dovessi morire misteriosamente, lui dovrà venire a salvare noi, povere donne indifese. Tutto entro un giorno…».

Entro un giorno… E ora che il tempo è quasi arrivato, penso: verranno veramente?

Ma ci furono altri segni a convincermi che Vlad se ne sarebbe ben presto andato. Infatti, dopo pochi giorni, aveva rubato tutte le carte e i vestiti di Harker: lo capimmo quando facemmo la nostra rituale visita mattutina alle stanze dell’ospite. Queste incursioni sono diventate estremamente illuminanti ora che Harker trascrive attentamente i bizzarri scribacchiamenti del suo diario in inglese su una pergamena separata. Ha scritto l’intero diario per noi, e io so che ci servirà in Inghilterra, poiché è pieno di astuti dettagli degni del diario di un avvocato.

«Sarà la nostra spia a Londra», mi disse Elisabeth quel giorno, «e, prima che Vlad si alzi, celebrerò un rito privato per essere sicura che Mr. Harker sopravviva abbastanza a lungo da esserci di aiuto. Ma, prima, un po’ di protezione più pragmatica…».

Mentre parlava, si mosse verso il tavolino da notte e prese un crocifisso che vi si trovava, o piuttosto la catena d’oro che vi era attaccata e se lo lasciò ciondolare davanti al viso.

Confesso che ansimai forte, poiché ero stata ben consapevole della sua presenza per tutto quel tempo e mi ero sentita a disagio. Lei vide il mio imbarazzo (o, piuttosto, francamente, il terrore) e rise, gettando la testa all’indietro mentre portava il piccolo Cristo impalato in alto finché esso sovrastò i suoi lineamenti perfetti, di porcellana.

«Non essere crudele», la supplicai con voce tremante, poiché mi sentivo improvvisamente sul punto di piangere. «Non giocare con me in questo modo, perché non lo sopporto… Ti taglierai la tua pelle preziosa!».

Lei continuò a ignorarmi, ridendo, come se tenere un attizzatoio incandescente sopra un viso tanto perfetto e bello fosse un piacevole divertimento. Allora mi arresi alle lacrime e mi coprii gli occhi.

Quando guardai di nuovo, lei si premette la cioce dorata sulle labbra e la baciò.

Gridai e stetti per svenire; all’improvviso, lei corse verso di me e mi prese tra le braccia, dicendo:

«Mia cara, mia cara, non volevo allarmarti così! Volevo soltanto provarti una cosa. Ecco…»