Loro non sapranno che io sono qui — manterrò l’invisibilità per me e per Gerda nelle nostre rispettive celle — e questo mi aiuterà a mantenere un controllo nascosto su Jonathan finché stabiliremo se è un agente di Vlad o no. Fino ad allora, supporremo che lo sia, e useremo segretamente precauzioni simili a quelle che io uso già con Gerda. Questo sarà, per Mrs. Harker, la cosa più sicura.
John si è mostrato d’accordo nel non rivelare agli Harker alcuna informazione che li possa mettere in allarme circa la profondità delle nostre conoscenze; invece, faremo finta di essere degli ingenui pasticcioni che non sanno nulla della nuova forza di Vlad. Così, se Vlad è a conoscenza dei pensieri di Jonathan, scoprirà ben poco dei nostri piani.
Ho anche avvertito John che Madam Mina ha ricopiato il suo diario e quello del marito, e che me li ha offerti; potrebbe venire il momento in cui potrebbe essere chiamato a dare il suo. Per quanto riguarda me, posso facilmente dire che non ho alcun diario, poiché gli Harker non lo vedranno — né vedranno me — al manicomio.
Ma John registra giornalmente sul suo fonografo — qualche volta più di una volta al giorno — e la sua attrezzatura è troppo difficile da nascondere. Gli ho chiesto di non registrare alcun dettaglio che non desidera far ascoltare a chiunque o, almeno, di registrarli segretamente con la penna, in modo che non possa essere ascoltato, e il diario possa essere nascosto.
È stato d’accordo, e ritornerà anche indietro per ascoltare quello che ha già registrato. Ogni bobina che contenga registrazioni che rivelino troppo, sarà nascosta nella mia cella e lui la registrerà di nuovo per renderla coerente con ciò che noi vogliamo che gli Harker — e, di conseguenza, Arthur e Quincey — sappiano. Ci siamo accordati che John farà la parte dello scettico, che non sa niente del Vampiro ed è restio a crederci.
Ho un’altra ragione per dissimulare, una che, forse, è sciocca: se Madam Mina, coraggiosa e forte anima, dovesse conoscere la misura dei poteri di Vlad, potrebbe perdere la speranza. E questo non riuscirei a sopportarlo.
Capitolo tredicesimo
Il diario del dottor Seward
29 settembre. Che strano scrivere con la penna e nella mia camera da letto invece che nell’ufficio. A malincuore acconsento all’inganno, specialmente a quello che può avere come oggetto i miei due più cari amici, Art e Quincey, ma ne capisco la ragione e devo trarre conforto dal fatto che, così facendo, li proteggo.
Così, ecco la verità: devo registrarla in qualche modo, affinché non dimentichi tutto e non cominci a credere alle mie stesse menzogne.
Oggi, poco dopo mezzogiorno, il professore mi ha riportato alla tomba di Lucy. Il nostro piano per entrare nel cimitero era molto semplice: avremmo atteso un funerale, che si pensava avesse luogo a mezzogiorno, poi ci saremmo nascosti quando i partecipanti se ne fossero andati (sembrava non esserci ragione di suscitare sospetti scavalcando il muro nella piena luce del giorno). Il becchino, pensando che tutti se ne fossero andati, avrebbe chiuso a chiave il cancello di ferro dietro di sé, poi saremmo stati liberi di fare come desideravamo, poiché Van Helsing mi aveva confidato di aver tenuto con sé la chiave della tomba delle Westenra, che il becchino gli aveva consegnato per darla ad Arthur.
Lo ammetto: accompagnai Van Helsing con molta trepidazione. Il mio dolore per la morte di Lucy, sebbene non più vivissimo, era ancora fresco, ed essere finalmente testimone della realtà del vampirismo con lei come esempio, sembrava troppo doloroso. Penso che acconsentii in una sorta di intontimento poiché a stento potevo crederla morta, e ancora meno trasformata in un mostro. Parte di me sperava che il professore fosse un pazzo con le allucinazioni e che tutto quel parlare di succhiare sangue e di Vlad Dracula non fosse che un sogno da cui mi sarei presto svegliato. Così andai, credendo solo a metà che avrei visto la prova delle pretese di Van Helsing.
Il nostro piano funzionò come un orologio. Andammo al cimitero e attendemmo finché il cancello fu aperto e i partecipanti al funerale furono arrivati. Poi anche noi entrammo: vestiti di nero, per adeguarci. Il professore aveva portato la sua borsa da medico, cosa che mi provocò un po’ di paura, poiché sentivo che avrebbe attirato l’attenzione su di noi; fortunatamente, aveva ragione riguardo al fatto che nessuno l’avrebbe notata o, se questo fosse accaduto, che ne avrebbe pensato qualcosa.
Era un giorno gelido, grigio, desolato e umido per la nebbia; un giorno appropriato per il nostro compito. Per tutto il funerale, restammo tranquilli ai margini del gruppo di persone. E, quando fu finito e la gente cominciò a sparpagliarsi, andammo dietro la tomba più lontana e aspettammo finché udimmo il rumore del becchino che chiudeva il cancello.
Infine, quando non ci fu più nessuno, Van Helsing mi condusse al piccolo edificio quadrato, di pietra, sulla cui entrata era incisa la parola:
Ero stato troppo sconvolto durante il funerale di Lucy per ricordare dove si trovasse la tomba; il mio sguardo era concentrato sulla bara, coperta di lino e cosparsa di fiori bianchi, mentre cercavo di immaginarmi come sarebbe apparsa da Morta Vivente. Sarebbe stata ancora più bella o anche riconoscibile come la dolce ragazza che era stata? Avrebbe avuto lunghe zanne piene di saliva e una forza inumana, mentre usciva dalla lastra di piombo che doveva contenere il puzzo dei suoi resti in putrefazione?
Il professore sentì chiaramente la mia crescente riluttanza, poiché pose brevemente una calda mano sulla mia spalla per infondermi conforto e incoraggiamento. Poi si mise, con la chiave, a lavorare alla serratura. La prima era antica e un po’ arrugginita e gli richiese un lavoro di parecchi secondi prima che, finalmente, la grossa porta di metallo emettesse un lugubre cigolio e si aprisse.
Ci volle un po’ di sforzo da parte di entrambi, mentre io mi chiedevo, in continuazione, in che modo Lucy avrebbe mai potuto farcela. Il professore mi fece cenno di entrare; un gesto oscuramente cavalleresco, se mai ci fu. Così feci, e sobbalzai quando un topo nero squittì passandomi sopra un piede.
All’interno, l’aria era fredda, ma stantia e pesante per l’odore di fiori in putrefazione. Era, penso, il luogo più disperato in cui mi fossi mai trovato poiché, nel corso di una settimana, le ragnatele si erano infittite, e numerosi scarafaggi dal dorso lucido strisciavano davanti ai miei piedi. Tutto quanto — le alte finestre ottagonali, le mura vuote, le ombre striscianti — era ricoperto da un sottile strato di polvere che sembrava assorbire tutta la luce. Suppongo che l’aspetto sinistro mi turbò, poiché il professore mi toccò una spalla per farmi ritornare in me.
Sobbalzai di nuovo, con grande imbarazzo, poi cominciai a seguire Van Helsing, che mi aveva sorpassato sapendo dove andare, uscendo dalla stretta entrata per passare in una stanza più ampia dove una ventina di bare erano adagiate su catafalchi di marmo. Era facile indovinare quali fossero quelle di Mrs. Westenra e di Lucy, poiché le altre erano tutte ricoperte da uno strato talmente fitto di polvere (che dimostrava quanto tempo era passato da quando qualcuno era venuto lì) che non si riuscivano a vedere né il colore della bara né la targhetta del nome.
Il professore andò immediatamente, con la borsa in mano, verso le bare più pulite, e diede un’occhiata in basso alle targhette d’argento per accertarsi quale fosse quella di Lucy. Una volta deciso, posò la borsa e ne tirò fuori un cacciavite e un seghetto, che poggiò, con una certa insensibilità, sulla vicina bara di Mrs. Westenra.
Devo dire che ero completamente stupefatto dalla sua incredibile calma e concretezza. Essendo un medico esperto, da lungo tempo avevo perduto la mia schizzinosità circa i morti, ma quello al quale ci avvicinavamo ora non era un cadavere ordinario, né le circostanze erano ordinarie. Van Helsing però si comportava come se si trattasse di qualcosa che aveva fatto per tutta la sua vita.