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Senza fanfara e neanche un accenno di rispetto, alzò il coperchio della bara, con una tale rapidità che io riuscii a malapena ad evitare di tirarmi indietro. Era sciocco farlo da parte mia, poiché il mio cervello sapeva bene che avremmo visto soltanto il rivestimento di piombo, ma il mio cuore aveva evidentemente fatto sì che me lo dimenticassi per un istante. I fiori morti posti sulla bara di Lucy — uno dei quali io stesso avevo poggiato lì una settimana prima — si sparsero a terra con un fruscio, un crudele ricordo che persino lo stesso dolore non durava in eterno.

Il professore non li degnò di attenzione ma, con il freddo distacco che gli ho visto assumere in chirurgia, prese il cacciavite. Con un improvviso movimento violento, fece del suo pugno un martello e colpì il manico del cacciavite così che la sua punta aprì il sottile rivestimento di piombo.

Questa volta indietreggiai davvero e tirai fuori il mio fazzoletto, del tutto pronto a proteggermi dalla conseguente fuga di gas nocivo che sarebbe venuta dal cadavere vecchio di una settimana. Ma non arrivò nessuna puzza. Mi permisi di tirare un respiro e rimasi affascinato da ciò che seguì.

Van Helsing posò il cacciavite e prese il piccolo seghetto. Dopo averlo infilato nello spazio lasciato dalla perforazione, segò alcuni pezzi da un lato della bara, poi nella parte superiore, quindi dall’altra. Poi afferrò la lingua di metallo in cima e la tirò giù fino alla fine, come una madre potrebbe tirare giù una coperta troppo calda per non svegliare un bambino che dorme.

Ma non c’era niente di tenero nei movimenti del professore; quando tirò indietro il rivestimento di piombo lasciando vedere il cadavere al di sotto, la sua espressione era più fredda e più dura di quanto avessi mai visto.

«Amico John», gridò, con una voce così profonda e severa che nessuno avrebbe osato disobbedire. «Non guardarla! Non guardarla!».

In realtà, non mi ero fatto forza a sufficienza per fissarla, così il suo ammonimento arrivò in tempo. Si mise tra me e la bara e disse con foga:

«Ho fatto male a non avvertirti prima. No, guarda me, non lei… sì! E ora ascolta: senti la tua aura e attirala dentro di te, verso il tuo cuore. Rafforzati lì. Questo ti proteggerà dalla sua forza di attrazione, adesso e in futuro. Sì, sì!», gridò approvando.

In apparenza il mio viso era cambiato mentre mettevo in pratica la sua lezione. In effetti, scoprii che la conseguenza era che avevo “indurito il mio cuore”. Lo sforzo emotivo del doloroso incontro fu all’improvviso più facile, e io mi trovai posseduto in una certa misura dalla calma concentrazione del professore.

Mentre il mio equilibrio ritornava, emisi un sospiro.

«Benissimo!», disse il professore. «Benissimo! Se ora desideri guardarla, puoi farlo; se vedrò che hai dei problemi, ti aiuterò. Mi scuso per non averti insegnato prima questa tecnica. Sono stato abbastanza sciocco da credere che i talismani che avevo lasciato con lei sarebbero rimasti e che l’avrebbero tenuta nella tomba finché non fossimo riusciti a mandarla in un riposo più onorevole. Prima che fosse posta nella bara, li avevo posti sulle sue labbra e sul suo seno ma, vedi? Qualcuno li ha tolti». Sospirò. «Li avevo messi su di lei durante la veglia ma qualcuno, in casa, li tolse allora: due crocifissi d’oro. Così, prima del funerale, pagai il becchino e ne misi altri due sopra di lei prima di vedere che la chiudevano sotto il piombo. Ora qualcuno ci ha ingannato di nuovo, ma non un mortale, temo, o il piombo sarebbe già stato tolto».

Lo ascoltai soltanto a metà poiché, quando mi aveva dato il permesso, avevo subito guardato Lucy. Dire che era bella sarebbe stato un insulto; nella morte vivente, lei andava oltre la bellezza, oltre la radiosità. Di fatto, era come se lo stesso sole fosse stato avvolto in un sudario bianco, lasciando vedere soltanto in alcune parti — testa e mani — la sua piena gloria lucente. I suoi capelli, che erano stati color cenere e biondi dove il sole estivo li rendeva più chiari, erano adesso di un glorioso e scintillante bronzo con striature di oro fuso. Le sue labbra erano del rosa delicato, iridescente, della madreperla, proprio come i suoi occhi — occhi aperti, che guardavano senza vedere un punto oltre il soffitto — erano del verde mare della madreperla lucidata. E il suo viso era quello della luna, pieno di una radiosità interna.

Un pensiero, un piccolo pensiero — Mio Dio, com’è bella! — e un momentaneo e sottile desiderio di rinunciare a tutto ciò che era morale e giusto, e di raggiungerla nell’estasi eterna. Sentii il mio cuore che andava verso di lei come la marea cerca la luna. Ero perduto, vinto.

Ancora una volta, il tocco della mano del professore mi riportò indietro dalla mia pericolosa fantasticheria. Alzai lo sguardo e inghiottii aria; fissando i profondi occhi blu di Van Helsing, mi concentrai, e di nuovo ripresi il controllp del mio cuore e delle mie emozioni.

«Sto bene», dissi. «Non la guarderò più».

E, per mostrare la mia determinazione, mi allontanai dal cadavere e mi voltai verso l’entrata.

Rimase lì soltanto pochi secondi in più per lasciare altri talismani e rimettere a posto il piombo, poi richiuse il coperchio della bara.

«Per il bene di Arthur», disse con aria cupa mentre ce ne andavamo, «e per il fatto che sono stato troppo arrogante nel portare con me il palo e il coltello, pensando che la mia debole magia l’avrebbe tenuta qui — non l’uccido adesso ma, se stanotte non riusciremo a farlo, quando Arthur e Quincey verranno, allora ci sarà molto sangue sulla mia testa: molto sangue!».

Ora è sera e Arthur e Quincey arriveranno tra poche ore in risposta alle lettere del professore. Il pensiero di ciò che sta per accadere mi lascia troppo inquieto per cenare.

Il diario del dottor Van Helsing

29 settembre. Arthur e Quincey sono arrivati la notte scorsa alle dieci, entrambi con un’espressione confusa. Come concordato, John ci condusse tutti dentro al suo studio e chiuse la porta a chiave, cosa che non fece che sottolineare il misterioso senso di segretezza.

Una volta che gli altri ebbero preso posto sul lungo divano, io rimasi davanti a loro rivolgendomi ad essi, e tutti e tre mi guardarono con curiosità e anche con una debole speranza, come se ci potesse essere qualcosa di buono nel mezzo di tutto quel dolore. Arthur aveva un aspetto terribile; nel corso di una settimana era invecchiato di quindici anni. La sua fronte, prima liscia, era piena di rughe, e i suoi occhi erano ancora fissi; in essi, io vidi entrare e uscire pensieri di tristezza, come nuvole passeggere. Si trovava in quel terribile primo stato di lutto in cui qualsiasi vista, qualsiasi suono, qualsiasi ricordo, potevano toccarlo e riaccendere il dolore.

Anche Quincey stava soffrendo nel suo modo tranquillo. Le sue labbra già sottili erano diventate notevolmente più fini, e le ombre si erano raccolte sotto i suoi occhi stanchi; sotto le lentiggini che stavano così bene con i suoi capelli rosso scuro, la sua pelle era diventata pallida. Era seduto con il suo grande e bianco Stetson che rigirava tra le dita ossute e giocava con il bordo, così che il cappello girava lentamente. Ma, nonostante la sua sofferenza, manteneva un’allegria forzata per amore dei suoi amici.

Per me fu un momento difficile, mentre fissavo quelle anime buone ma turbate; avevo riflettuto a lungo su quell’incontro, ed ero arrivato all’infelice conclusione che non c’era, semplicemente, un modo indolore per farlo. Così cominciai dicendo che avevo finalmente compreso cosa aveva ucciso Lucy e che lei si trovava, in quel momento, in uno stato tale che noi avevamo un ultimo compito da svolgere, per amore di lei.

Arthur si irrigidì per l’orrore.