«Fermo! Fermo! È mio figlio che tieni nelle tue braccia! Uccidilo, e ucciderai te stesso!».
Avevo lavorato così tanti anni per proteggere il mio solo erede nascondendo la verità; adesso la verità era la mia sola speranza di salvarlo. Vlad si fermò; poi aggrottò la fronte guardando John e disse: «Menti! Lui non pensa di essere tuo figlio!». Ma, un istante più tardi, un sottile dubbio gli apparve sul viso, riflettendo, forse, gli stessi dubbi di John sull’argomento.
Di quell’istante approfittammo noi mortali: Arthur, Quincey e io. Ci gettammo con tutto il peso contro Vlad e John; il Vampiro, naturalmente, rimase immobile, ma l’attacco scatenò in lui una tale furia che allentò la presa su mio figlio e, invece, afferrò me, mentre gli altri portavano in salvo John. Anche nel mezzo del mio sollievo, mi venne in mente un pensiero orrendo: dov’era Lucy? E tutti i suoi innamorati sarebbero stati in grado di resisterle senza il mio aiuto?
Ma non riuscivo a vedere nient’altro che il viso dell’Impalatore, poiché lui aveva afferrato la mia gola con le sue mani freddissime e mi fissava negli occhi così da vicino che potei sentire il suo fetido alito — il puzzo del morto che imputridisce — prima che parlasse.
Il volto di Vlad splendeva in modo così brillante, così incandescente per la furia, che io chiusi gli occhi abbagliato, ma l’immagine rimaneva ancora. «Sono stanco di te e dei tuoi giochi, vecchio!», ruggì. «Le cose hanno compiuto un giro completo. Non molto tempo fa, eri forte, sicuro e invincibile, e io decrepito, invecchiato, senza speranza; avevo bisogno di te per la mia stessa sopravvivenza. Ma ora tu sei il vecchio, l’uomo debole senza speranza, e io sono quello invincibile! Chinati e venerami, poiché adesso sei tu ad avere bisogno di me per vivere».
Gracchiai, aprii gli occhi, e poi mossi la lesta, indicando che desideravo rispondere. E, quando lui allentò la sua presa micidiale sul mio collo, non esitai, non vacillai. Dissi semplicemente:
«Uccidimi».
Allora emise un grido di frustrazione che mi lasciò quasi sordo e, quando mi ripresi, disse con scherno:
«Sei così arrogante, così sicuro di te! Tu pensi che non ti possa uccidere, che abbia paura a causa del Patto! Ma senti questo: non ho più bisogno di quello per sopravvivere. Io sono colui che fa i Patti! E tu e i tuoi amici siete morti».
Il mondo si inclinò all’improvviso quando mi sollevò in alto, sopra la sua testa, con le mani ancora intorno alla mia gola, così strette che potevo a malapena tirare il fiato, ed ero troppo stordito per vedere cosa ne era stato dei miei amici. Pregai che fossero fuggiti, non solo per la loro stessa salvezza, ma perché fosse loro risparmiato l’orrore di vedere il loro unico “esperto di Vampiri” sconfitto dall’oggetto della sua caccia.
Sbattei le palpebre e il mondo ruotò nuovamente diventando un opaco muro bianco di marmo. Quindi quello doveva essere il mio destino: avere il cervello spappolato contro la tomba dei Westenra. Non era un destino tanto orribile (considerando le orrende alternative) ma, nel distacco eccezionale causato da quella paura mortale, mi dispiacque lasciare i miei amici, inclusa Miss Lucy, in una situazione così disperata. E anche, stranamente, il terribile disordine che avevo lasciato, disordine che qualche povera anima di classe inferiore sarebbe stata costretta a pulire.
Le mani che mi tenevano si tirarono indietro, poi mi spinsero come una fionda verso il marmo. Devo aver volato non più di una minuscola frazione di un secondo, poiché non eravamo a più di venti piedi di distanza dal muro. Eppure me lo ricordo chiaramente come se ci fossero voluti parecchi minuti, poiché ero consapevole di molte cose: del vento freddo che fischiava oltre le mie orecchie che pungevano, del mio dispiacere nel lasciare Gerda (sebbene sapessi che John ne avrebbe avuto cura nel modo giusto), del mio dispiacere di non vivere per tenere la mano di mia madre sul letto di morte, del mio dispiacere di non aver liberato Miss Lucy dalla maledizione, e infine del mio dispiacere che John dovesse per sempre chiedersi se avevo mentito quando avevo preteso che fosse mio figlio.
Del mio dispiacere, del mio dispiacere, del mio dispiacere…
E dell’incombere del marmo e, persino nella luce fioca, il mio notare ogni disegno nella pietra con morbosa fascinazione. Come sarebbe sembrato lì il mio sangue? Il mio cervello?
Guarda, Brain: ecco la Morte che arriva. Chiudi gli occhi e sii grato di morire senza maledizione.
Così feci, ed ero in attesa, tendendo il mio corpo, dell’impatto che, Dio volendo, sarebbe stato troppo rapido per infliggermi un dolore insopportabile.
Ma l’impatto non venne.
Oh, stavo sospeso e in attesa, con il cuore che martellava come un prigioniero che sta per uscire. Ma sembrava che fossi stato facilitato e impossibilmente fermato da un qualche cuscino invisibile… morbido, fermo, e infinitamente comodo, e tenuto sospeso senza sforzo. Era quella la morte? Era una vita dopo la morte in cui io sudavo, avevo paura, e ascoltavo il battito che mi pulsava nelle vene?
Aprii gli occhi e vidi il marmo bianco a un solo pollice dal mio naso.
Dietro di me udii un’adirata imprecazione in rumeno e, dalla gola di demonio di Lucy, provenne un acuto grido spaventato. Allora la notte si fece improvvisamente calma, e io sentii dentro di me il grande senso di pace che si prova quando il Vampiro è fuggito.
Poi, mentre fissavo, sollevato, il marmo disegnato, sentii e vidi un cambiamento. Il morbido cuscino d’aria che mi circondava si indurì, finché sentii la pelle, i tendini e le ossa che mi sostenevano. Lentamente arrivai a comprendere che il mio mento era appoggiato su una spalla dura, ossuta ma non alta e, con la coda dell’occhio, vidi un tessuto nero, sul quale posavano dei capelli di un bianco radioso.
Cominciai a piangere e, prima che delle piccole e forti mani mi avessero messo in piedi a terra, stavo ridendo e piangendo insieme. Non riuscivo a tenermi su, ma caddi al suolo e guardai degli occhi così profondi che non avrei potuto dare un nome al loro colore, poiché li contenevano tutti: erano occhi infinitamente giovani e infinitamente antichi, infinitamente severi e infinitamente affettuosi, infinitamente addolorati e infinitamente divertiti.
«Arminius!», gridai, con tono di rimprovero e di gioia. «Arminius, perché non sei venuto prima?».
Capitolo quattordicesimo
Il diario di Abraham Van Helsing
29 settembre, continua. Aveva lo stesso aspetto dell’ultima volta che lo avevo visto, ventidue anni prima: piccolo e flessibile, ma forte di spalle e con la schiena diritta sotto un vestito di lana nera senza fronzoli. Sotto a un cappuccio di lana nera che ricordava quelli che potrebbe indossare un prete ortodosso, i suoi capelli cadevano in folti ricci fino alla vita. Come i suoi lunghi baffi e barba, erano di un bianco splendente, che rendeva la pelle radiosa del viso e delle orecchie, morbida come quella di un bambino e, per contrasto, anche più rosata. Ma non era un prete: non era nemmeno cristiano. Il suo volto era quello di un ebreo ascetico, di un’aquila, con un naso importante che si incurvava verso il basso, e grandi occhi languidi. Un ebreo, sì, per sangue… ma molto lontano dall’ortodossia del suo credo. Se credesse anche in Dio, non potrei dirlo poiché, durante la mia educazione come uccisore di Vampiri, spiegò sempre le cose nei termini più pragmatici. Forse lui, come il suo discepolo, non credeva in formule religiose o in nomi o titoli particolari, ma in quelle cose che resistevano, quelle cose che trascendevano la religione, la scienza, e toccavano tutti gli uomini troppo profondamente per essere negate: l’Amore, la Compassione, la Bontà.
I suoi capelli e il suo portamento erano quelli di un vecchio, ma la sua condotta e i suoi movimenti erano quelli di un giovane robusto. Alla mia domanda, si accucciò al livello in cui io mi trovavo, in modo che potessimo parlare guardandoci negli occhi, e piegò mollemente le braccia sopra le gambe.