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Era abbastanza, ieri notte, vedere la donna morta che io amavo trasformata in una diavolessa sbavante; quello solo era più di quanto qualsiasi uomo possa sopportare senza diventare pazzo. E poi, vedere lo stesso Vlad — molto più giovane e forte di quanto mi fosse stato descritto, fiammeggiante di malvagia gloria — spingere il mio amato professore verso la morte…

È più di quanto possa sopportare, eppure lo sopporto.

Ma, quando vidi la figura angelica che lo salvava a meno di mezzo secondo dalla morte, mi dissi: Ecco, Jack; dopo tutto questo tempo, hai infine raggiunto la follia totale. Che fortuna che la casa sia già un manicomio…

E li ascoltai che parlavano insieme come amici da lungo tempo perduti o, piuttosto, come insegnante e studente da lungo tempo lontani, con Van Helsing nel mio ruolo e l’angelo splendente nel suo. Oh, una cosa è leggere dell’occulto, giocare con le aure, discutere teorie di Vampiri e di altre entità incorporee, e come si possa venire a contatto con una, ma…

Bene, è completamente un’altra cosa vedere tali esseri e poi scoprire che il tempo si è interrotto e un fatto è stato cancellato. In questo caso è stato come se Vlad non fosse mai apparso e io e il professore non fossimo mai stati in pericolo: ancora peggio, quando finimmo al cimitero, seppi dalle espressioni e dai discorsi di Art e Quincey che loro non avevano visto quegli stessi impossibili eventi, come era accaduto a me. Fu un istante terribile poiché, per lo spazio di alcuni secondi, fui convinto che ero io a essere diventato completamente pazzo. Finché, cioè, guardai negli occhi il professore e vidi che anche lui sapeva.

Allora, era accaduto veramente! Fortunatamente, né Quincey né Arthur erano in vena di inutili chiacchiere dopo una serata tanto orribilmente dolorosa; dopo che li ebbi fatti sistemare dalla cameriera nella zona degli ospiti nella parte privata della casa, entrambi andarono direttamente nelle loro stanze.

Sebbene, intanto, fossero le tre del mattino, capii che il sonno sarebbe stato del tutto impossibile finché non avessi avuto delle risposte a delle domande sconvolgenti. Non avevo modo di sapere se il professore era ritornato, ma ero disperato; così, dopo un po’, quando fui certo che Art, Quincey e la cameriera si fossero messi a letto, andai di nascosto al manicomio e mi recai direttamente nella cella del professore. Bussai piano, chiamando:

«Sono John. Vi devo parlare».

La porta si aprì lentamente. Non riuscivo a vedere niente all’interno sebbene la lampada fosse accesa un po’, ma un soffice velo blu ondeggiava nell’aria proprio appena al di là della soglia.

Coraggiosamente, entrai e oltrepassai il luccicore ceruleo, per scoprire che la stanza era esattamente la stessa… tranne il fatto che il professore era seduto a gambe incrociate sul pavimento, senza scarpe.

Si era tolto gli occhiali e li teneva in grembo, tanto che i suoi profondi occhi blu sembravano, in un certo senso, nudi, e i capelli rosso oro che si ingrigivano erano scomposti, come se vi avesse passato le dita attraverso, in segno di preoccupazione. Al vedermi sospirò, si rimise gli occhiali e, con una voce stanca ma gentile, disse:

«Salve John. Sospettavo che saresti venuto».

Non potei fare a meno di essere un po’ freddo con lui, poiché mi sentivo, come minimo, molto imbarazzato e, al peggio, molto tradito.

«E sospettate anche cosa sto per chiedervi?», dissi.

Sospirò ancora. Mentre l’aria gli usciva dai polmoni, tutto il suo buonumore, tutta la sua forza, tutto il suo coraggio, sembrarono andarsene con essa, finché compresi, con mio sconforto e sgomento, che stavo fissando un uomo fragile, dal cuore spezzato, con le occhiaie sotto gli occhi miopi.

«Non lo sospetto, lo so. E la risposta è: sì, John».

«Io sono vostro figlio», dissi, con il tono pacato per l’incredulità, mentre pensavo: Allora si sbaglia; ha dimenticato tutto ciò che ha gridato a Vlad e pensa che sono venuto a chiedergli qualche altra cosa.

«Tu sei mio figlio», disse, con una tale tranquilla convinzione, una tale tenerezza, un tono di scusa talmente sentito, che gli credetti immediatamente. Emozioni conflittuali mi assalirono: dubbio, rabbia, amore, sollievo. Sembrava tutto orribilmente, orribilmente sbagliato; ma sembrava anche orribilmente giusto.

Di fronte al mio turbamento, la sua espressione si fece preoccupata.

«Lo sapevi, John, che eri stato adottato?», mi chiese.

«Sì», risposi, con la voce tesa al punto di sforzarla; con mio imbarazzo, ero sul punto di piangere. «Sì, ma non è questo. Voglio sapere perché…».

E, a quel punto, la mia voce si spezzò veramente; non riuscii a dire altro.

«Perché sono stato tuo amico e maestro per tutti questi anni e non te l’ho detto».

Annuii ciecamente, ricacciando indietro le lacrime, mentre lui mi faceva cenno di sedere.

Mi sedetti sul pavimento freddo e lui cominciò a raccontarmi una storia che era cominciata molto tempo fa, quando un Principe chiamato Vlad, che, molto più tardi, sarebbe stato conosciuto come l’Impalatore (Tsepesh) o il figlio del Drago (Dracula), stipulò un Patto con l’Oscuro Signore. Ogni generazione della sua famiglia gli avrebbe offerto l’anima del figlio primogenito, maschio, che fosse sopravvissuto, in cambio di una continua immortalità. Ma, prima che quell’anima fosse offerta, il suo proprietario doveva risultare corrotto di propria volontà. Se invece l’agnello sacrificale fosse morto da uomo buono, onesto, allora Vlad avrebbe perso la sua immortalità, e sarebbe morto.

«Mio padre, Arkady, era il primogenito della sua generazione; lui morì incorrotto ma, preso dalla disperazione, Vlad lo morse per intrappolare la sua anima tra cielo e terra. Poi Arkady fu distrutto… e Vlad divenne debole e vecchio ma, per qualche ragione, non morì».

Io lo fissavo come colpito da un fulmine rivelatore; sapevo che il professore aveva avuto un solo fratello che era morto da molto tempo.

«Allora voi…».

«Io sono l’erede di Dracula», disse amaramente. «E il primogenito maschio sopravvissuto della mia generazione. Hai sentito, penso, Arminius che parlava del manoscritto».

Annuii, nuovamente ammutolito.

Distolse lo sguardo.

«Soltanto a causa sua Vlad ha osato minacciarmi. John», disse poi, volgendosi verso di me all’improvviso e afferrandomi le braccia per la disperazione, «ti giuro su ogni cosa buona che non sarei mai venuto qui se avessi saputo degli accresciuti poteri di Vlad. Lui era debole, perdente; io ero molto più potente di lui, e credevo che la mia missione fosse finita molti mesi fa. Non ti avrei mai messo in pericolo in questo modo…».

Gli feci capire la mia accettazione stringendo a mia volta le sue braccia, ma la mia mente era andata avanti e stava lottando per comprendere il mio passato e il mio stesso destino.

«Io… io sono il vostro figlio primogenito, non è così? Avevate un bambino che morì…».

Lui fissava il pavimento e, per la prima volta da quando lo conosco, parlò con una voce impastata di lacrime. «Un bambino che io uccisi», disse, e lo spasimo di un dolore che gli attraversò il viso fu così intenso e violento che io distolsi lo sguardo. «Il mio Jan. Il mio piccolo Jan…».

A quel punto scoppiò in singhiozzi talmente forti e strazianti che non potei fare altro che fissare in basso e guardare sgorgare le mie stesse lacrime.

Dopo un po’, ci riprendemmo entrambi, e lui continuò con voce rauca:

«Zsuzsanna — la nipote di Vlad e la sua compagna Vampira — lo morse, trasformandolo in un piccolo mostro. Non avevo altra scelta che liberarlo».

«Quindi, quando aveste un altro figlio, lo mandaste via», dissi. «Lontano, e non diceste a nessuno dov’era».

«Per proteggerlo, ma vedi, John», e aprì le mani disperato, «vedi quello che è stato di tutti i miei sforzi per risparmiarti il dolore che ho conosciuto. Come dicono i buddisti, il tuo karma è quello di soffrire per mano di Vlad; senza che il Vampiro sapesse della tua esistenza, ha scovato e ucciso la donna che amavi».