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3 ottobre. Il peggiore tra tutti i giorni da quando abbiamo perduto la povera Lucy.

Fino alla notte scorsa, tutto stava andando bene, e io osavo sperare. Sono contento di aver permesso ad Harker di entrare a far parte del nostro gruppo, poiché è stato una inestimabile fonte di informazioni riguardo a dove Vlad ha trasportato le casse.

Sembra che, il “conte”, abbia acquistato altre proprietà a est e a sud di Londra: a New Town, dove Whitechapel Road diventa Mile End, e a Jamaica Lane, Bermondsey. Ha anche acquistato una casa proprio nel cuore della città, a Piccadilly. Oggi andremo là e cercheremo documenti riguardo ad altre proprietà, e le loro chiavi. E forse, se il Destino lo vuole, ci imbatteremo in una “chiave” molto diversa.

Prima di ieri, Jonathan aveva completato la sua ricerca, e noi eravamo in possesso degli indirizzi necessari; Arthur e Quincey trascorsero il giorno per trovare dei cavalli in modo che ci potessimo spostare rapidamente di luogo in luogo. Domani, mi dissi, il Vampiro sarà nostro! Ero nuovamente pieno di ottimismo ma, ahimè!, nel mio sciocco desiderio di proteggere Madam Mina dal male e dalla conoscenza del male, ho trascorso poco tempo con lei… e così non ho visto l’ovvio.

Nelle ore che precedono l’alba, John è venuto di corsa nella mia cella, così sconvolto che sono immediatamente uscito dal mio rifugio per vedere cosa l’aveva tanto spaventato.

«Professore!», gridava, senza alcuna preoccupazione che qualcuno potesse sentire e sapere in quale luogo della casa mi trovavo. «Renfield sta morendo…».

Con la borsa in mano, mi precipitai con lui per vedere se potevo essere d’aiuto come medico. La porta che conduceva alla cella di Renfield era spalancata, e l’inserviente era rannicchiato dietro di lui con un’espressione di angoscia e di impotenza.

Il primo sguardo provò che John non aveva assolutamente esagerato la situazione, poiché il pover’uomo giaceva sul fianco, con il viso rivolto verso l’alto e la testa e le spalle circondate da uno scuro alone di sangue che si andava allargando. L’esame rivelò la schiena rotta e il cranio fratturato, con pezzi di osso spinti all’interno del cervello; sarebbe morto subito se non si fosse fatto qualcosa per allentale la pressione del sangue che si accumulava nel cervello.

Istintivamente, alzai lo sguardo da dove ero inginocchiato accanto all’uomo morente, e diedi uno sguardo alla finestra con le grate, dove solo di recente John aveva messo una delle croci di Arminius.

Sparita! Con voce chiara ne chiesi conto all’assistente:

«Il crocifisso sopra la finestra: dov’è?».

Dovette pensare che fossi folle o spietato, o entrambe le cose, per fare una domanda tanto apparentemente irrilevante, mentre il povero Renfield soffriva accanto alle mie ginocchia. Imbarazzato, il corpulento giovanotto lo porse a John, dicendo:

«L’ho tolto perché questa sera stava diventando pazzo cercando di saltare e di tirarlo giù; temevo che si facesse male, così sono entrato e l’ho tolto. Ha cercato di togliermelo e ha supplicato per averlo ma, dato che era tagliente…».

«È abbastanza», disse John piuttosto adirato.

Suppongo che l’assistente pensasse che noi lo sospettassimo di volerlo rubare e che ci preoccupassimo di più della proprietà di Seward che del nostro paziente che soffriva, poiché indietreggiò con un’espressione offesa.

«Mandalo via», ordinai e, allo sguardo scandalizzato che l’assistente rivolse a me e poi a John, spiegai: «Dovremo fare un buco nel cranio per allentare la pressione. Se vuoi restare…».

Ma lui era già fuori dalla porta, che chiuse dietro di sé. Dissi a John, mentre prendevo gli strumenti dalla mia borsa:

«Sarebbe opportuno trapanare. Non penso che lo salveremo ma, perlomeno, potrà passare i suoi ultimi momenti consapevole e in modo migliore».

Mentre parlavo, bussarono piano alla porta e, sia Arthur che Quincey, sbirciarono dentro. John li fece entrare; non chiesero alcuna spiegazione nel vedere la pozza di sangue e il nostro paziente orribilmente ferito.

Rimasero in piedi in silenzio e sgomenti mentre io eseguivo l’operazione, trapanando proprio sopra l’orecchio del paziente. Per il momento, andava bene; dopo qualche minuto, la pressione si alleggerì. Renfield aprì gli occhi e, del tutto lucido, chiese che gli fosse tolta la camicia di forza.

Non c’era ragione di tenerlo costretto comunque, dato che qualsiasi movimento avrebbe soltanto aumentato il dolore e accelerato la sua morte. Sebbene la fine non fosse lontana, sentii che desiderava parlare e “confessare i suoi peccati”, per così dire. Non mi dispiaceva sentirli, poiché la finestra non più sicura significava pericolo per noi tutti.

Parlò razionalmente, anche con gentilezza, in un modo che evocò la mia pietà, ma non ho mai udito delle parole che mi abbiano tanto addolorato. Il nostro Renfield era veramente stato sotto l’influenza del Vampiro e adorava il suo “Signore e Maestro”, ma era stato anche conquistato da Madam Mina, che gli aveva fatto visita due volte per cortesia; la seconda volta, proprio quel pomeriggio. Era diventata troppo pallida perché lui riuscisse a sopportarlo, disse. E aggiunse: «Mi fece impazzire sapere che Lui le aveva preso la vita».

Che momento orribile! Mentre lo diceva, nessuno di noi riuscì a reprimere un brivido.

Dracula, sentendo l’odore di Mina, era andato da lui solo qualche momento prima, quella notte, entrando con facilità una volta che il talismano era stato rimosso. E quell’uomo — quel pazzo furioso — aveva affrontato il Vampiro con le sue mani e aveva lottato per proteggere Madam Mina nell’unico modo che conosceva.

Quando ebbe finito di parlare e sospirò ricadendo nell’incoscienza, l’aria era elettrica: noi quattro non dicemmo una parola ma lasciammo quel pazzo coraggioso a morire, e corremmo nelle nostre stanze per prendere i talismani. In pochi secondi eravamo arrivati davanti alla porta della stanza di Harker, che era chiusa dall’interno.

Tutti insieme ci gettammo contro di essa ed entrammo buttandola giù. Io caddi in avanti e gli altri mi oltrepassarono, poi si fermarono improvvisamente. Cadendo, ebbi la sensazione di stare attraversando una nuvola di luccicante indaco, intensa e fredda, sebbene non così intensa come quando avevo visto il Vampiro l’ultima volta, e toccata all’interno da una traccia di bianco radioso e di un puro bagliore dorato. Ma non era Vlad, non era Vlad che mi sfiorava, ma qualcos’altro di completamente malvagio e del tutto femminile.

Passò rapidamente; la porta si chiuse con forza dietro di me quando lei se ne andò e, mentre io mi rialzavo a fatica sulle mani e le ginocchia (oh, e se fossi stato in piedi mi ci sarei lasciato cadere!), vidi…

Harker russava sul letto vicino alla finestra e sul bordo estremo del materasso, mentre sua moglie teneva il viso premuto contro il petto nudo dall’Impalatore, i cui occhi erano chiusi nell’estasi più profonda. Lei voltò la testa, soffocando, mostrando alla luce della luna la bocca e le guance scure e gocciolanti di sangue vampiresco. Quella vista mi trapassò come una lama appuntita: era la versione più crudele del rito del sangue, uno scambio sanguinario che legava completamente la vittima al predatore. Se anche lui aveva bevuto da lei, allora lei era sua.

Ma, nel mezzo del mio orrore, un pensiero mi colse: Non ci ha uditi arrivare. Non ci ha uditi arrivare. È cambiato…

Mi rimisi in piedi mentre il Vampiro, alla fine, diventava consapevole della presenza dei suoi nemici; con un rapido e potente movimento, gettò la sua vittima sul letto e balzò verso di noi. Ma prima io avevo alzato l’involto che conteneva l’ostia consacrata e sentii una forza che come un lampo si spostava dal mio cuore alle dita. Anche senza l’apporto della forza di Arminius, non ero mai stato più determinato, più concentrato, più fiducioso, in tutta la mia vita; penso che avrei potuto scacciarlo con la mia sola volontà.