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A parecchi piedi di distanza c’era un uomo, anche lui vestito a lutto. Con la coda dell’occhio notai la sua presenza, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso della donna poiché la conoscevo… e allo stesso tempo non la conoscevo.

La sua aura non era forte, appena normale; stranamente, mentre si avvicinava alla sfumatura indaco del Vampiro (sebbene non così scura da andare oltre un profondissimo blu), era macchiettata con l’oro del progresso spirituale. Riuscii solo a pensare ad un cielo blu scuro punteggiato di stelle.

Se John aveva visto questo, aveva buone ragioni per essere confuso.

«Bram», disse con gentilezza, «so che sei mio nipote, Stefan George Tsepesh. Io sono Zsuzsanna Tsepesh. Sono venuta a chiedere il tuo perdono e ad offrirti il mio aiuto».

Per alcuni secondi non riuscii a parlare: potevo soltanto fissarla con le labbra aperte per lo stupore. Perché quella signora era Zsuzsanna, colei che aveva corrotto il mio piccolo Jan, la tormentatrice della mia povera Gerda… ma una Zsuzsanna senza alcuna traccia di fascino vampiresco, una Zsuzsanna che non faceva alcun tentativo di ipnotizzarci.

Esitai sulla soglia; la sua sincerità sembrava genuina, ma invitarla dentro casa poteva significare il disastro per tutti… specialmente se lei aveva rubato il manoscritto.

«Hai veramente bisogno del mio perdono», dissi con amarezza. «Ma non sono sicuro di potertelo dare; a causa tua, il mio figliolo è morto, e mia moglie è irrecuperabilmente pazza».

Quel ricordo evocò un odio implacabile dentro di me e il desiderio di essere crudele; sollevai il talismano che avevo preso dalla tasca, e lo tenni all’altezza del petto.

I suoi occhi si strinsero per il dolore e si irrigidì, ma non fece alcun movimento per scappare o per colpirmi; invece, rimase dov’era. Non sapevo cosa fare perché, più la guardavo, più il dolore e la rabbia mi sopraffacevano. Desideravo solo chiudere la porta e dimenticare il suo viso prima possibile, e mi mossi per fare proprio così. Ma, prima che ci riuscissi, l’uomo dietro di lei gridò:

«Bram! Aspetta!».

E Arkady salì le scale e si fermò accanto a lei; una sola lacrima illuminata dal sole le brillò sulle guance quando lui le circondò le spalle con un braccio consolatore.

«Figlio mio», disse gentilmente, «con le tue armi — indicò con il capo la croce nelle mie mani — ci crei un terribile disagio. Sai che non ti farei mai del male, per cui ora ti chiedo: l’ascolterai?».

In risposta guardai intensamente John. Lui fissava i due con un’espressione profondamente perplessa, poi guardò nuovamente me e chiese:

«Lui è veramente tuo padre?»

«Lo è», risposi, e Arkady sorrise a suo nipote, dicendo:

«E tu sei John. Ti ho visto la notte scorsa a Carfax; tuo padre mi ti ha indicato. Il mio nome è Arkady ma, per favore, chiamami come desideri».

Il colore se ne andò dal viso di John e il suo volto divenne privo di espressione; la stranezza di tutto ciò, unita ai terribili fatti della notte precedente, lo lasciava completamente inebetito. Era arrivato a considerare ogni Vampiro come un nostro nemico mortale… e ora stavamo riflettendo sul fatto di accoglierne due in casa. Mi guardò però con la coda dell’occhio e, vedendo il mio cenno di assenso, spalancò la porta e disse:

«Prego, entrate».

Naturalmente, non potevano oltrepassare la soglia finché John non avesse tolto il crocifisso che vi era appeso sopra (il cane, forse, avrebbe potuto, ma stava al fianco di Zsuzsanna e non l’avrebbe lasciata). Quando furono passati, lui rimise immediatamente il talismano. Questo provocò in loro un certo disagio, ma ci assicurarono che ciò che dovevano dirci era abbastanza importante da meritare una temporanea scomodità.

Li condussi nell’ufficio di John, così che gli altri non avrebbero udito, e chiesi a tutti di sedersi. Lo fecero e, dopo uno sguardo di rassicurazione da parte di Arkady, Zsuzsanna disse, con voce tremante:

«Prima cosa e più importante di tutto, sappi che io mi pento onestamente di tutto il male che ho causato a te, a tua moglie, e al tuo primo figlio. Mi puoi perdonare?».

Annuii con solennità, poiché ero troppo addolorato per rispondere; infatti, il solo indicare un assenso fu un atto di volontà abbastanza difficoltoso, poiché i miei sentimenti erano quelli di odio e furia. Ma li ingoiai — una pillola abbastanza amara — e vidi il sollievo spandersi sul viso di lei.

«Grazie», sospirò, e poi si concentrò. «Ci sono molte cose che ti devo dire prima che continui nei tuoi sforzi contro Vlad. La prima…».

«Scusami», la interruppi, forse un po’ troppo aspramente, «ma tu devi, prima di continuare, rispondere a una mia domanda. Perché questo improvviso cambiamento di campo? Quando ti vidi l’ultima volta, avevi giurato di uccidermi».

Zsuzsanna rise: non era un suono completamente felice, ma fece sì che il cane ai suoi piedi alzasse lo sguardo verso la sua padrona. Lei si chinò in avanti per accarezzargli la testa con affetto distratto mentre rispondeva:

«Non è stato tanto improvviso quanto sembra. Ricorda, Bram, che io ho trascorso cinquant’anni con Vlad e, con il passare del tempo, sono arrivata a capire sempre più come mi abbia traviato. Lui non è quel giusto e incompreso eroe come, inizialmente, si era dipinto ai miei occhi; è una creatura fredda, malvagia, completamente incapace di qualsiasi gentilezza e impulso affettuoso. Com’era nella vita, così è nella morte vivente. E io sono arrivata a odiare lui», abbassò il viso, «e me stessa. Anch’io ero a Carfax, la notte scorsa… dove incontrai Kasha». Guardò con affetto Arkady. «Vidi il vostro incontro, e come entrambi piangeste Jan, Gerda e Mary». Nuovamente chinò la testa e batté rapidamente le palpebre per asciugare le lacrime. «Così compresi che ero stata io la fonte di quel dolore per tutti voi».

Feci un cenno al cane che si alzò e mi si avvicinò timidamente, con la testa in giù e la coda che scondinzolava con esitazione. Gli accarezzai la testa e le orecchie e guardai nel profondo dei suoi sensibili occhi scuri; era un cane comune, mortale, niente di più, e ciò mi fece migliore impressione del discorso che aveva fatto lei. I cani sono anime nobili, e istintivamente temono il male e il Vampiro; eppure quello era affezionato alla sua padrona, e lei a lui.

«Benissimo. Questo mi sarà sufficiente… per ora. Vai avanti».

Il cane si sistemò comodamente sui miei piedi, e fui costretto a continuare ad accarezzarlo o ad essere oggetto di continui colpetti che mi dava con il muso freddo e umido.

Il viso di lei si sollevò, e un lampo malizioso comparve nei suoi occhi quando vide che il cane giaceva ai miei piedi.

«Amico ti ama. Anche a me vuol bene teneramente, ma è sempre assai sollevato nel trovare un mortale gentile e caldo».

Poi quell’espressione birichina svanì, e divenne nuovamente triste mentre diceva:

«C’è un altro immortale che è coinvolto in questa vicenda: una donna, la contessa Elisabeth di Bathory che, durante la sua vita, torturò brutalmente fino a farle morire più di seicentocinquanta giovani donne e poi fece il bagno nel loro sangue. Ne hai sentito parlare?»

«Sì».

«È un Vampiro… ma nello stesso tempo non lo è, poiché non ha denti aguzzi e preferisce infliggere ferite alle sue vittime per mezzo di strumenti di tortura, prima di bere e fare il bagno nel loro sangue. È sempre stata una maga più potente di Vlad e una scienziata; il suo Patto con l’Oscuro Signore è privo delle trappole superstiziose che caratterizzano quello di Vlad. Si può muovere durante il giorno o la notte, dorme quando vuole nei letti normali e non teme i simboli religiosi, ma solo quelli caricati potentemente come talismani, come i tuoi». Indico con il capo la mia tasca, dove avevo riposto il crocifisso, poi tirò un profondo sospiro. «Io lo so, perché sono stata sua compagna per un po’ di tempo e posso dire senza riserve che, se dovessi scegliere tra Vlad ed Elisabeth, avrei più paura di Elisabeth».