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Subito tirai fuori la chiave inglese e il cacciavite e, con quelle in mano, cominciai ad aprire il coperchio della prima delle pesanti casse. Gli altri mi aiutarono sollevando il coperchio e mettendo all’interno un pezzo di ostia. Così procedemmo una dopo l’altra, trattando ogni cassa allo stesso modo: era un lavoro pesante e, ad un certo punto, diedi il cacciavite a John e gli chiesi di continuare, poiché la mia schiena era stanca di stare curva e desideravo stiracchiarla. Era la verità, anche se in parte volevo anche andare un po’ in giro di nascosto in cerca della prima chiave.

Comunque, prima di cominciare, mi portai vicino alla parete e mi allungai alla luce del sole, poiché la giornata era gelata e la vecchia casa fredda come quella tomba che era: così un po’ di calore era il benvenuto. Mentre stavo lì, con una mano premuta sulla parete sudicia per tenermi in equilibrio, un lampo di un blu scurissimo mi apparve davanti agli occhi. Battei le palpebre e, quando guardai ancora, vidi Zsuzsanna.

Invisibile e silenziosa, sperai, poiché la sua agitazione era eccezionale; si stava quasi torcendo le mani, mentre gridava:

«Guarda là! La parete! Lui l’ha presa!».

Lei indicò, e io seguii la direzione con lo sguardo. Sulla sinistra, leggermente sopra la mia testa, una lama di luce si rifletteva sul muro… proprio al centro della croce ora scomparsa. In quel punto la polvere e le ragnatele erano state tolte per scoprire un buco nel legno marcio, dove era stata messa una scatoletta di legno. Il coperchio della scatola era stato aperto, in modo che, se uno si trovava perpendicolare alla parete, un esame attento avrebbe mostrato il coperchio che ne usciva.

Casualmente allungai il braccio e ne tastai l’interno con le dita: solo vuoto e legno lucidato. Ogni sforzo di liberare la scatola fu inutile.

«Come sai che è stato Vlad», bisbigliai, voltando il viso verso la parete, «e non Elisabeth?».

Lei diede un’occhiata ad Harker che, insieme a Quincey, stava sollevando il pesante coperchio della terza cassa, così che Arthur avrebbe potuto metterci un altro pezzo dell’ostia sacra.

«Non può essere stata lei. Non so dove si trovi, ma è ancora frustrata, e ora anche arrabbiata. Penso che abbia fatto questa scoperta stamattina… il che significa che Vlad deve aver trovato la chiave la notte scorsa».

«E ha letto la terza riga?», chiesi cupamente.

«Non lo so. Mi devo affrettare: Arkady se n’è andato per tentare di seguirlo, e io lo devo raggiungere!».

Prima che potessi dire un’altra parola, era svanita, e così raggiunsi gli uomini e li aiutai a finire il loro lavoro.

Era un lavoro lungo e duro, e arrivò mezzogiorno prima che avessimo finito. Gli altri sembravano rallegrarsi del nostro successo, mentre io lottavo per nascondere la mia delusione; soltanto John lo notò. Poiché non potevamo permetterci di rallentare, andammo quasi immediatamente alla stazione e prendemmo il treno per Londra.

Con molta facilità individuammo la vecchia casa al 347 di Piccadilly, sebbene la zona trafficata in cui si trovava e la chiara luce del giorno ci impedissero di entrarci come avevamo fatto a Carfax. Ad Arthur venne in mente l’eccellente idea di fingere di essere il proprietario della casa e di chiedere a un fabbro di aprire la porta principale. Così fece con successo, fingendo una tale disinvoltura e fiducia mentre guardava l’uomo fare il suo lavoro, che un poliziotto che controllava la zona non vi badò.

Dopo qualche commento ironico da parte di Quincey sull’innato talento criminale di Lord Godalming, entrammo in casa. Esaminando attentamente la proprietà, trovammo degli oggetti appartenenti a Dracula sul tavolo della sala da pranzo: un mazzo di atti notarili (grazie a Dio, relativi solo alle quattro proprietà) e un altro pesante anello di chiavi.

Ma all’interno della stessa stanza vi erano le casse: non nove, ma soltanto otto! Comunque, con l’aiuto del cacciavite e della chiave inglese, le aprimmo una a una, e le sigillammo con l’ostia. Poi gli arnesi furono consegnati ad Arthur e a Quincey, insieme al mazzo di chiavi; loro andarono a Bermondsey e a Mile End, mentre Harker, Seward e io restammo a Piccadilly, in attesa del “conte” se fosse venuto.

Infatti venne… dopo un’attesa di molte ore e proprio dopo che Quincey e Arthur erano ritornati con la notizia che avevano sigillato sei casse a Bermondsey e sei a Mile End; ma mancava una cassa all’appello!

Fu proprio dopo quella frustrante rivelazione che udimmo la chiave girare nella serratura, seguita da dei passi, rumori che ci misero tutti allerta ma che ci riempirono anche di una contentezza dolceamara, poiché segnalavano il ritorno di Vlad a limitati poteri durante la luce del giorno. Adesso si poteva muovere soltanto in forma umana fino al calare del sole: tanto meglio per noi!

Anche così si dimostrò un nemico temibile, e balzò attraverso la porta della sala da pranzo con grazia e astuzia felina. Harker brandì il suo grande coltello kukri e tentò di colpirlo, con gli occhi che fiammeggiavano come quelli di un angelo vendicatore. Fosse stato un pollice più vicino, si sarebbe guadagnato la giornata, poiché la punta arrivò pericolosamente vicina al freddo cuore del Vampiro. In realtà, l’enorme lama penetrò attraverso il petto del suo cappotto da cui cadde una cascata di monete d’oro e banconote.

Con velocità e destrezza, il Vampiro si chinò sotto al braccio di Jonathan per raccogliere quante più monete e banconote poté, e con quelle corse via così rapidamente, che nessuno di noi riuscì ad afferrarlo.

Harker era disfatto per il suo fallimento, poiché aveva giurato di liberare il suo amore dalla maledizione prima del calar della notte; noi lo consolammo meglio che potemmo, ma segretamente io mi sentii incoraggiato da quell’incontro pomeridiano: i capelli di Vlad erano striati d’argento, e il suo viso era segnato dalle prime tracce dell’età. Sta diventando costantemente più debole, chiave o no! E presto noi la otterremo da lui…

Se Elisabeth non lo raggiunge prima.

4 ottobre. Nell’ora che precede l’alba, John venne a svegliarmi. Lui e gli altri uomini avevano fatto dei turni, passando la notte fuori della stanza degli Harker, in parte per far sentire a Madam Mina che era protetta e, in parte, penso, per proteggere me da Jonathan. Comunque, Jonathan era uscito correndo dalla camera per svegliare John, poiché Madam Mina mi aveva mandato a chiamare per ipnotizzarla subito, prima che il sole sorgesse.

Non persi tempo, ma indossai la vestaglia e seguii John. Intanto, sia Arthur che Quincey (il quale, sospetto, era troppo inquieto per dormire) si erano alzati, e tutti insieme ci incamminammo verso la camera da letto degli Harker.

La luce a gas brillava, e Madam Mina sedeva in vestaglia su una poltroncina, con i lunghi capelli neri che le ricadevano in onde sulle spalle. Jonathan si sedette accanto a lei, tenendole la mano nelle sue con aria sollecita; anche il suo atteggiamento era allegro ed eccitato, ma i suoi occhi erano ansiosi. Al vedermi lei sorrise, assumendo il suo vecchio aspetto più di quanto avesse fatto per molti giorni, ma il sorriso svanì quasi all’istante mentre diceva, con un’aria allo stesso tempo decisa ed eccitata:

«Mi dovete ipnotizzare subito, dottore! Non chiedetemi come, ma io so di essere a conoscenza di informazioni su Vlad che ci possono aiutare…».

Prima che avesse finito di parlare, sollevai una mano e le ordinai di fissare il suo sguardo nel mio, più per gli altri che stavano a guardare che per Madam Mina. Mossi la mano qua e là per fare un po’ di spettacolo ma, alla fine, fu un semplice sguardo negli occhi di lei che glieli fece chiudere e la fece cadere in una profonda trance.