Lo Split City aveva una licenza della Commissione Interstatale per il Commercio, intestata a Bernard Gary. Un gran giurì federale non era riuscito, tre anni prima, a incriminare Gary per trasporto interstatale di merci rubate, e la sua licenza era in corso di revisione.
Yow svoltò sotto l'insegna e mostrò le sue chiavi a un giovanotto in uniforme che stava di guardia al cancello. Il giovane annotò i numeri di targa, aprì e accennò di passare con un gesto impaziente, come se avesse cose molto più importanti da fare.
Split City è un posto squallido e ventoso. Come il volo domenicale dei divorzi dall'aeroporto La Guardia a Juarez, rappresenta un servizio per l'irrazionale moto browniano della nostra popolazione; quasi tutto ciò che vi viene custodito è il frutto delle spartizioni che seguono i divorzi. I suoi capannoni sono pieni di mobili da soggiorno, tinelli, materassi macchiati, giocattoli e fotografie di legami che non hanno funzionato. I dipendenti dell'ufficio dello sceriffo della Contea di Baltimora sono convinti, inoltre, che Split City nasconda parecchia roba di valore sottratta ai tribunali fallimentari.
Somiglia a un'installazione militare: dieci ettari di lunghi capannoni, suddivisi da muri antincendio in unità grandi come spaziosi garage singoli, ognuna con la saracinesca. Le tariffe sono ragionevoli e parte del materiale è lì da anni. Il servizio di sicurezza è efficiente. Il deposito è circondato da due recinzioni, e nello spazio intermedio si aggirano i cani da guardia, ven-tiquattr'ore su ventiquattro.
Uno strato di quindici centimetri di foglie fradice, bicchieri di carta e altri rifiuti s'era ammucchiato alla base della porta dell'unità di Raspail, la numero 31. Un robusto lucchetto bloccava la porta da ogni lato. Su quello di sinistra c'era un sigillo. Everett Yow si chinò con un movimento rigido. Nell'oscurità appena discesa, Clarice reggeva un ombrello e una lampada tascabile.
«Sembra non sia stata aperta da quando sono venuto qui cinque anni fa» disse. «Vede? Nella plastica è impresso il mio sigillo notarile. A quell'epoca non immaginavo che i patenti fossero tanto litigiosi e che l'approvazione del testamento si sarebbe trascinata per tanto tempo.»
Yow prese la lampada tascabile e l'ombrello mentre Clarice fotografava il lucchetto e il sigillo.
«Il signor Raspail aveva un ufficio-studio in città, e l'ho chiuso per evitare che l'asse ereditario dovesse pagare l'affitto» disse. «Ho fatto portare qui i mobili e li ho sistemati con la macchina e le altre cose che c'erano già. Ci abbiamo portato un pianoforte verticale, libri e musica, e anche un letto, a quanto ricordo.»
Yow provò una chiave. «Forse le serrature sono bloccate. Questa, almeno, è molto dura.» Per lui era difficile piegarsi e respirare nello stesso tempo. Quando cercò di accosciarsi, le sue ginocchia scricchiolarono.
Clarice notò con soddisfazione che i lucchetti, grossi e cromati, erano American Standard. Sembravano formidabili: ma sapeva che avrebbe potuto far saltare facilmente i cilindri con una vite metallica e un martello con la coda appuntita... quand'era bambina, suo padre le aveva mostrato il sistema usato dagli scassinatori. Il problema sarebbe stato trovare il martello e la vite; ora non aveva a disposizione il ciarpame che era sempre a bordo della Pinto.
Frugò nella borsa e trovò la bomboletta di spray che usava per le serrature della sua macchina.
«Vuole riposarsi un momento, signor Yow? Perché non si scalda per qualche minuto in auto mentre provo io? Prenda l'ombrello. Ormai è soltanto un'acquerugiola.»
Clarice avvicinò la Plymouth dell'FBI alla porta, per sfruttare la luce dei fari. Prese l'oliatore e fece sgocciolare un po' d'olio nelle serrature dei lucchetti, quindi spruzzò lo spray per diluirlo. Il signor Yow, che era risalito sulla sua macchina, annuì e le sorrise. Era una fortuna che fosse un uomo intelligente: avrebbe potuto svolgere il suo lavoro senza alienarselo.
Ormai era completamente buio, e Clarice si sentiva esposta nella luce dei fari della Plymouth. Sentiva la cinghia della ventola che cigolava, mentre il motore era al mimmo. Aveva chiuso a chiave la portiera. Il signor Yow sembrava del tutto innocuo; ma non c'era motivo di correre il rischio di finire schiacciata contro la porta.
Il lucchetto le sobbalzò nella mano come una rana e si aprì, pesante e unto. L'altra serratura, che aveva avuto il tempo di lubrificarsi, fu più facile.
La porta a bilanciere non voleva saperne di alzarsi. Clarice tirò la maniglia fino a quando vide macchie luminose che le danzavano davanti agli occhi. Yow venne ad aiutarla, ma la maniglia era troppo piccola, e lui soffriva d'ernia: il suo intervento non servì a molto.
«Potremmo tornare la settimana prossima con mio figlio o qualche operaio» propose il signor Yow. «Vorrei tanto poter andare presto a casa.»
Clarice non era affatto sicura che avrebbe potuto ritornare lì. Per Cra-wford sarebbe stato più semplice prendere il telefono e dare l'incarico all'ufficio di Baltimora. «Signor Yow, cercherò di sbrigarmi. Ha un cric in macchina?»
Piazzò il cric sotto la maniglia e usò tutte le sue forze per azionare la leva. La porta emise un cigolio terribile e si alzò di un centimetro. Sembrava che s'incurvasse verso l'alto in centro. La porta si sollevò di altri due centimetri, poi di altri due, fino a quando Clarice poté infilarvi sotto la ruota di scorta, per tenerla bloccata mentre spostava il cric del signor Yow e quello della Plymouth ai lati della soglia e li metteva sotto il bordo, vicino alle guide.
Azionò i cric, prima da una parte e poi dall'altra, e riuscì a far alzare la porta di circa mezzo metro; poi s'incastrò completamente e Clarice non riuscì a smuoverla per quanto usasse tutte le sue forze nell'azionare ancora i cric.
Il signor Yow venne a sbirciare sotto la porta. Non poteva stare curvo per più di qualche secondo.
«C'è odore di topi, là dentro» disse. «Mi avevano assicurato che usavano il veleno. Mi pare che sia precisato nel contratto. I roditori sono quasi sconosciuti, mi avevano detto. Però io li sento... lei no?»
«Li sento» disse Clarice Starling. La luce della torcia elettrica le mostrava alcuni scatoloni e un grande pneumatico con la fascia bianca sotto il bordo di un telone. La gomma era sgonfia.
Fece indietreggiare la Plymouth fino a quando una parte della luce dei fari passò sotto la porta, e tirò fuori uno dei tappetini di gomma.
«Ha intenzione di entrare, agente Starling?»
«Devo dare un'occhiata, signor Yow.»
L'avvocato tirò fuori il fazzoletto. «Le consiglio di annodare i calzoni alle caviglie. Per evitare che i topi si arrampichino.»
«Grazie, è un'ottima idea. Signor Yow, se la porta si abbassasse, ah, ah,
o se succedesse qualcosa d'altro, mi farebbe la cortesia di telefonare a questo numero? È il nostro ufficio di Baltimora. Sanno che in questo momento sono qui con lei e si allarmeranno se non mi farò viva tra poco. Capisce?»
«Sì, certo, capisco benissimo.» Yow le porse la chiave della Packard.
Clarice mise il tappetino sul terreno bagnato davanti alla porta, vi si sdraiò. Con una mano teneva un pacco di sacchetti di plastica per raccogliere le prove stretto contro l'obiettivo della macchina fotografica, e si era legata i pantaloni alle caviglie con il suo fazzoletto e con quello che le aveva dato Yow. La pioggerella le bagnava il viso, e l'odore di topi e di muffa le assaliva le narici. Quella che le venne in mente fu, per un caso assurdo, una frase latina.
Il suo insegnante di medicina legale l'aveva scritta sulla lavagna il giorno della prima lezione, ed era il motto dei medici romani: Primum non no-cere. Per prima cosa, non nuocere.
Ma non l'aveva detto in un garage pieno di stramaledetti topi.
E all'improvviso risuonò la voce di suo padre. Le parlava tenendo la mano sulla spalla di suo fratello. «Se non sei capace di giocare senza strillare, Clarice, torna in casa.»