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Le molle della macchina cigolarono quando salì, e il manichino si spostò leggermente. La mano destra inguantata di bianco scivolò dalla coscia e ricadde sul sedile. Clarice toccò il guanto con l'indice. La mano, all'interno, era dura. Scostò delicatamente il guanto dal polso. E il polso era di un materiale sintetico bianco. Nei calzoni c'era una protuberanza che per un momento assurdo le ricordò certi avvenimenti dei tempi in cui frequentava le superiori.

Un fruscio leggero veniva da sotto il sedile.

La sua mano toccò il cappuccio in un gesto leggero come una carezza. La stoffa si mosse senza difficoltà sopra qualcosa di duro e levigato. Quando Clarice sentì il pomolo rotondo in alto, comprese. Era un grande recipiente per esemplari da laboratorio. E sapeva che cosa vi avrebbe trovato. Con un certo timore ma senza il minimo dubbio, tolse il cappuccio.

La testa nel recipiente era stata tagliata di netto sotto la mascella. Era rivolta verso di lei, e gli occhi erano stati bruciati e resi lattiginosi dall'alcol che l'aveva conservata. La bocca era aperta e la lingua grigia sporgeva leggermente. Con gli anni l'alcol era evaporato al punto che la testa poggiava sul fondo del recipiente, e la sommità affiorava dalla superficie del liquido in una calotta di putredine. Era girata ad angolo rispetto al corpo, come la testa di un gufo, e fissava stupidamente Clarice Starling. Era muta e morta persino nel gioco di luce sui lineamenti.

In quel momento Clarice Starling pensò a se stessa. Era soddisfatta. Era euforica. Per un secondo si chiese se erano sentimenti degni di lei. In quel momento, seduta a bordo di una vecchia automobile in compagnia di una testa mozza e di diversi topi, riusciva a riflettere chiaramente, e ne era orgogliosa.

«Bene, Toto» disse «non siamo più nel Kansas.» Aveva sempre desiderato dire quella frase in un momento di tensione: ma ora che l'aveva fatto si sentiva fasulla, ed era contenta che nessuno avesse sentito. C'era del lavoro da fare.

Si assestò sul sedile e si guardò intorno.

Era un ambiente scelto e creato da qualcuno, lontano mille anni luce, nel pensiero, dal traffico che procedeva molto lentamente sulla Strada 301.

I fiori secchi penzolavano dai vasetti di cristallo intagliato fìssati all'interno della macchina. Il tavolo pieghevole era abbassato e coperto da una tovaglietta di lino. Sopra c'era una bottiglia per liquori che scintillava nonostante un velo di polvere. Un ragno aveva intessuto la tela tra la bottiglia e il piccolo candeliere che le stava accanto.

Clarice cercò d'immaginare Lecter o qualcun altro che seduto lì con il suo attuale compagno, beveva qualcosa e gli mostrava i biglietti di san Valentino. E che altro? Con movimenti cauti per spostare il meno possibile il manichino, lo perquisì cercando qualcosa che portasse a un'identificazione. Non c'era nulla. In una tasca della giacca trovò le strisce di stoffa che erano avanzate quando qualcuno aveva accorciato i pantaloni... lo smoking era probabilmente nuovo quando era stato messo indosso al manichino.

Clarice Starling toccò la protuberanza nei calzoni. Troppo dura persino per le scuole superiori, pensò. Allargò l'apertura con le dita e puntò la lampada su un pene artificiale di legno lucido e intarsiato. E bello grosso, anche. Si chiese se era una depravata, per caso.

Girò piano piano il recipiente ed esaminò i lati della testa e l'occipite, cercando qualche ferita. Non ne vide. Sul vetro era impresso il nome di un'azienda che vendeva materiale per laboratori.

Osservò di nuovo la faccia e pensò di aver imparato qualcosa che poteva esserle utile: guardare la faccia con la lingua che cambiava colore dove toccava il vetro non era orribile come il pensiero di Miggs che inghiottiva la lingua nei suoi sogni. Si rendeva conto che poteva guardare qualunque cosa, se poteva fare qualcosa di positivo al riguardo. Clarice Starling era giovane.

In dieci secondi, dopo che la sua unità mobile della WPIK-TV si fu fermata, Jonetta Johnson mise gli orecchini, s'incipriò il bel viso bruno e valutò la situazione. Lei e la sua troupe del telegiornale, dato che avevano ascoltato la radio della polizia della Contea di Baltimora, erano arrivati a Split City precedendo addirittura le auto di pattuglia.

Tutto ciò che la troupe vide inquadrato nella luce dei fari fu Clarice Star-ling, ritta davanti alla porta del garage con la torcia elettrica e il tesserino di plastica rigida e i capelli incollati alla testa dalla pioggerella.

Jonetta Johnson era in grado di riconoscere una recluta novellina al primo colpo d'occhio. Scese, seguita dalla troupe, e si avvicinò a Clarice. I riflettori si accesero.

Il signor Yow si acquattò nella sua Buick. Soltanto il cappello rimase visibile attraverso il finestrino.

«Jonetta Johnson, telegiornale della WPIK, è stata lei a segnalare un omicidio?»

Clarice non aveva molto l'aria della rappresentante della legge e se ne rendeva conto. «Sono un agente federale, e questa è la scena di un delitto. Devo sorvegliarla finché le autorità di Baltimora...»

L'assistente del cameraman aveva afferrato la porta del garage e stava cercando di sollevarla.

«Fermo» ordinò Clarice Starling. «Sto parlando con lei, signore. Fermo. Indietro, per favore. Non sto scherzando. Mi aiuti.» Rimpiangeva di non avere un distintivo, un'uniforme... qualcosa, insomma.

«Va bene, Harry» disse la giornalista. «Ah, agente, noi intendiamo collaborare in tutti i modi. Francamente, questa troupe costa un pozzo di quattrini e io voglio solo sapere se vale la pena di tenerla qui fino all'arrivo degli altri tutori della legge. Vuol dirmi se c'è un cadavere, là dentro? La telecamera non è in funzione, resterà fra noi. Me lo dica, e aspettiamo. Faremo i bravi, glielo prometto. D'accordo?»

«Se fossi al suo posto, aspetterei» disse Clarice.

«Grazie, non se ne pentirà» disse Jonetta Johnson. «Vede, ho certe informazioni sullo Split City Mini-Storage che forse potrebbero servirle.

Vuole puntare la torcia elettrica sulla cartelletta? Vediamo se riesco a trovarle.»

«L'unità mobile della WEYE è appena entrata dal cancello, Joney» annunciò l'uomo che si chiamava Harry.

«Vediamo se riesco a trovarle, agente... ecco qui. Ci fu uno scandalo un paio d'anni fa quando cercarono di provare che l'azienda trasportava e immagazzinava... erano fuochi artificiali, mi sembra...» Jonetta Johnson lanciò un'occhiata al di là della spalla di Clarice, una volta di troppo.

Clarice si voltò e vide il cameraman sdraiato supino, con la testa e le spalle all'interno del garage; l'assistente era accovacciato accanto a lui, pronto a passargli la minicamera sotto la porta.

«Ehi!» gridò Clarice. Si lasciò cadere in ginocchio sul terreno bagnato e tirò l'uomo per la camicia. «Non può entrare! Ehi! Le ho detto di non farlo.»

Gli uomini continuavano a parlarle, gentilmente. «Non toccheremo niente. Siamo professionisti, non deve preoccuparsi. I poliziotti, tanto, ci lasceranno entrare. È tutto a posto, tesoro.»

Quei modi suadenti da seduttori le fecero perdere la pazienza.

Corse a uno dei cric da un lato della porta e azionò la leva. La porta si abbassò di cinque centimetri con uno stridore metallico. Clarice azionò la leva una seconda volta: adesso la porta toccava il petto dell'uomo. Quando vide che non si decideva a uscire, estrasse la leva e la portò accanto al cameraman. Adesso c'erano altri riflettori accesi: e in quel bagliore Clarice batté con forza la leva contro la porta facendo cadere sull'uomo una pioggia di polvere e di ruggine.