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Catherine Martin aveva ripreso a gridare.

Doveva attendere lì? Attendere in eterno? Forse è fuggito. Non può essere sicuro che non arrivino i rinforzi. Sì, può essere sicuro, invece. Ma presto si accorgeranno della mia scomparsa. Stasera. Le scale sono nella direzione degli urli. Devi decidere, e subito.

Si mosse senza far rumore, sfiorando appena il muro, con la spalla, sfiorandolo troppo leggermente per produrre un suono, con una mano protesa in avanti, la pistola a livello della cintura e tenuta contro il corpo, nello spazio limitato del corridoio. Avanzò nel laboratorio e sentì lo spazio aprirsi intorno a lei. Una grande stanza. Si acquattò con le braccia protese, stringendo la pistola con entrambe le mani. Sai esattamente dov'è la pistola, è appena più in basso del livello degli occhi. Fermati, ascolta. La testa e il corpo e le braccia girano simultaneamente come una torretta. Fermati, ascolta. Nella tenebra assoluta il sibilo del vapore nei tubi, lo sgocciolio dell'acqua.

E nelle sue narici, intenso, l'odore di capra.

Il grido di Catherine.

Contro la parete c'era Jame Gumb con gli occhialoni. Non c'era pericolo che lei gli venisse addosso... tra loro c'era un tavolo da lavoro. Le fece scorrere addosso il raggio della lampada a infrarossi. Era troppo snella per essergli utile. Ma ricordava i capelli: li aveva notati in cucina, ed erano splendidi. Sarebbe stata questione di un minuto. Li avrebbe strappati in fretta e li avrebbe messi. Avrebbe potuto affacciarsi nel pozzo con quei capelli in testa e gridare all'essere: "Sorpresa!".

Era divertente vederla muoversi così, furtiva e a tentoni. Adesso teneva l'anca contro i lavelli e avanzava lentamente in direzione delle grida, con la pistola protesa. Sarebbe stato piacevole darle la caccia a lungo... non gli era mai capitato di dare la caccia a una preda armata. Sarebbe stato molto, molto divertente. Ma non c'era tempo. Peccato.

Un colpo in faccia sarebbe stato facile ed efficace, a due metri e mezzo di distanza. Adesso.

Armò la Python mentre l'alzava, snick snick, la figura si sfuocò, fiorì, fiorì verde davanti ai suoi occhi, e la pistola gli sobbalzò nella mano e il pavimento lo colpì con violenza alla schiena. La sua lampada a infrarossi era accesa, e vedeva il soffitto. Clarice Starling era sul pavimento, accecata dal bagliore dei lampi, le orecchie rintronate, assordata dagli spari delle pistole. Lei si mosse nella tenebra mentre nessuno dei due poteva udire, estrasse i bossoli vuoti, inclinò l'arma, tastò per accertarsi di averli tolti tutti, inserì il caricatore, a tentoni, lo inclinò, lo girò, lo lasciò cadere e richiuse il tamburo. Aveva sparato quattro colpi. Due e due. Gumb aveva sparato una volta sola. Clarice trovò le due cartucce cariche che aveva lasciato cadere. Dove poteva metterle? Nella custodia del caricatore. Rimase immobile. Doveva muoversi prima che Gumb fosse di nuovo in grado di sentirla.

Il suono di una pistola che viene caricata non somiglia a nessun altro. Aveva sparato in direzione di quel lieve rumore, non aveva visto altro che i lampi degli spari. Si augurò che adesso Gumb sparasse nella direzione sbagliata e rivelasse la sua posizione. Stava recuperando l'udito, le orecchie ronzavano ancora, ma sentiva.

Cos'era quel suono? Un fischio? Come il fischio di un bricco, ma interrotto. Che cos'era? Sembrava un respiro. Sono io? No. Il suo respiro riverberava caldo dal pavimento e le tornava in faccia. Doveva stare attenta, non doveva aspirare la polvere, non doveva starnutire. Sì, è un respiro. Una ferita al petto. Lui è colpito al petto. Le avevano insegnato a tappare quelle ferite, a metterci sopra qualcosa, un impermeabile, un sacco di plastica, qualcosa d'impenetrabile all'aria, e a stringerlo. E poi, gonfiare di nuovo il polmone. Dunque l'aveva ferito al petto. Cosa doveva fare? Aspettare. Lasciare che s'irrigidisse e sanguinasse. Doveva aspettare.

La guancia le bruciava. Non la toccò. Se sanguinava, non voleva che il sangue le rendesse scivolose le mani.

Il gemito proveniente dal pozzo si fece udire di nuovo. Catherine parlava, gridava. Clarice Starling doveva attendere. Non poteva rispondere a Catherine. Non poteva dire niente, non poteva muoversi.

La luce invisibile di Jame Gumb era puntata verso il soffitto. Gumb tentò di spostarla e non ci riuscì: come non poteva spostare nemmeno la testa. Una grande falena-luna malese passò vicina, sotto il soffitto, incontrò il raggio infrarosso, discese volando in cerchio, si posò sulla luce. Le ombre palpitanti delle ali, enormi sul soffitto, erano visibili soltanto agli occhi di Gumb.

Tra i suoni di risucchio nella tenebra, Starling sentì la voce terribile, soffocata: «Che... effetto... fa... essere... così... bella?».

Poi un altro suono. Un gorgoglio, un rantolo, e il sibilo cessò.

Clarice conosceva anche quel suono. L'aveva udito una volta, all'ospedale, quando era morto suo padre.

Cercò a tentoni il bordo del tavolo e si alzò. Continuò a muoversi nello stesso modo, verso la voce di Catherine. Trovò la tromba delle scale e salì i gradini al buio.

Le sembrò d'impiegarci un'eternità. C'era una candela nel cassetto della cucina. Alla luce della candela trovò l'interruttore centrale accanto alla scala e trasalì quando le lampade si riaccesero. Per arrivare all'interruttore e spegnere le luci, l'uomo doveva esser uscito dalla cantina da un'altra parte, e doveva essere ridisceso dietro di lei.

Clarice Starling doveva essere sicura che fosse morto. Attese fino a quando i suoi occhi si furono riabituati alla luce prima di tornare nel laboratorio, e si mosse con molta prudenza. Vide i piedi nudi e le gambe che spuntavano da sotto il tavolo. Tenne lo sguardo fisso sulla mano accanto alla pistola fino a quando allontanò l'arma con un calcio. L'uomo aveva gli occhi aperti. Era morto, colpito alla parte destra del petto, e giaceva in una pozza di sangue denso. Aveva indossato alcuni dei capi presi dall'armoire, e Clarice non resistette a guardarlo a lungo.

Andò al lavello, posò la Magnum e si fece scorrere l'acqua fredda sui polsi, si passò la mano bagnata sulla faccia. Niente sangue. Le falene battevano contro le reti metalliche intorno alle lampadine. Ritornò accanto al

cadavere e raccattò la Python.

Si affacciò al pozzo. «Catherine, è morto. Non può più farle male. Ora salgo a chiamare...»

«NO! MI TIRI FUORI. MI TIRI FUORI. MI TIRI FUORI.»

«Stia a sentire. È morto. Ecco la sua pistola. Se la ricorda? Ora chiamerò la polizia e i vigili del fuoco. Non mi azzardo a tirarla fuori io con l'argano. Potrebbe cadere. Appena avrò telefonato, tornerò qui e aspetteremo insieme. D'accordo? Cerchi di far star zitto quel cane. D'accordo?»

Le troupes delle televisioni locali arrivarono poco dopo i vigili del fuoco e prima della polizia di Belvedere. Il capitano dei vigili del fuoco, irritato dalle luci dei riflettori, ricacciò le troupes televisive su per la scala e fuori dalla cantina mentre faceva preparare una struttura di tubi per trarre Catherine Martin fuori dal pozzo, dato che non si fidava del gancio dell'argano. Un vigile del fuoco si calò, e sistemò Catherine sul sedile. Catherine uscì stringendo a sé la cagnetta, e continuò a tenerla fra le braccia anche in ambulanza.

All'ospedale rifiutarono di far entrare la bestiola. Un vigile del fuoco che aveva ricevuto l'ordine di condurla al canile, decise di portarsela a casa.

57

All'Aeroporto Nazionale di Washington una cinquantina di persone attendevano il volo notturno in arrivo da Columbus, Ohio. Quasi tutti erano venuti a prendere qualche parente, e avevano l'aria insonnolita e irritata, con i lembi delle camicie che spuntavano sotto le giacche.

Ardelia Mapp, che era tra la folla, vide Clarice Starling mentre scendeva la scaletta. Era pallida e aveva gli occhi cerchiati di nero. Qualche granello di polvere da sparo le spiccava sulla guancia. Clarice la scorse. Si abbracciarono.