Robert Wilson
Il silenzio delle vittime
Ah, ah! Che sciocca l’onestà! E la fiducia, sua sorella giurata, un’autentica sempliciona.
La paura è il fondamento della maggior parte dei governi.
Per Jane
e per José e Mick
RAFAEL
(battendo le palpebre nel buio)
Ho paura? Non ho nessuna ragione concreta di aver paura, qui a letto con Lucía e con il mio piccolo Mario che mormora nel sonno nella stanza accanto. Invece sono spaventato. Sono stati i sogni a spaventarmi, anche se ormai non sono più sogni. Sono più intensi dei sogni. Sogno volti, nient’altro che volti. Non credo che mi siano noti, eppure in certi strani momenti mi sembra quasi di riconoscerli, ma è come se quelle facce non volessero essere riconosciute, non ancora. È a quel punto che mi sveglio, perché… no, sono di nuovo impreciso. Non sono esattamente volti, non sono di carne, sono più spettrali che reali, però hanno lineamenti, hanno colore ma non sostanza, a quei volti manca giusto qualcosa, poco, per essere umani. Sì, ecco che cos’è. Manca poco perché siano umani. Che sia una traccia?
Se quei volti mi spaventano, dovrei essere riluttante ad andare a letto, ma talvolta non vedo l’ora di farlo e capisco che è così perché voglio conoscere la risposta. Nella mia mente, nascosta chissà dove, c’è la chiave che aprirà la porta e mi darà la risposta: perché proprio quei volti? Perché non altri? Per quale loro caratteristica il cervello me li ha segnalati? Ho cominciato a vederli distintamente anche di giorno, nei momenti in cui la coscienza per così dire va alla deriva e il mio subconscio modella quei lineamenti su persone reali, tanto che quei volti fantasma si animano per un istante, prima che le persone vere riprendano il sopravvento. E io rimango scosso e mi sento stupido, come un vecchio che abbia le parole sulla punta della lingua e non riesca ad articolarle.
Sto tremando. Ecco che cosa riesce a farmi la mente. Sto crollando. Sono diventato sonnambulo. Me lo ha detto Lucía mentre ero sotto la doccia, ha detto che sono sceso nello studio alle tre di notte. La mattina ho trovato sulla scrivania un blocco di fogli bianchi sul quale si vedeva il calco di una scrittura. Non ho trovato l’originale, ma quando ho portato il blocco vicino alla finestra ho visto qualcosa che vi avevo scritto: «nell’aria sottile…»
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Mercoledì 24 luglio 2002
«Voglio la mamma! Voglio la mamma!»
Consuelo Jiménez aprì gli occhi e si trovò la faccia di un bambino a pochi centimetri dalla sua, semiaffondata nel guanciale, con le ciglia che sfioravano la federa di cotone. Le dita del bambino le strizzarono il braccio.
«Voglio la mamma.»
«Va bene, Mario, ora andiamo a cercare la mamma», gli disse, pensando è presto, è troppo presto. «Lo sai che è proprio dall’altra parte della strada, vero? Puoi stare qui per un po’ con Matías, fare colazione, giocare…»
«Voglio la mamma.» Le dita del bambino affondarono nel braccio con un senso di urgenza e la donna gli accarezzò la testa, lo baciò sulla fronte.
Non voleva attraversare la strada in camicia da notte, come una barbona che avesse bisogno di qualcosa nella bottega di fronte, ma il bambino continuava a tirarle la manica, a fare moine. Si infilò una vestaglia bianca di seta e un paio di sandali dorati, poi si ravviò i capelli mentre Mario le girava intorno, avvolgendola nella vestaglia e tirandola e sospingendola un po’ come avrebbe fatto con un carico uno stivatore giù al porto.
Mano nella mano scesero i gradini uno alla volta finché ebbero lasciato il fresco dell’aria condizionata, per immergersi nel caldo all’esterno, un muro solido e immobile di calore senza nemmeno un alito di frescura, all’alba, dopo un’altra notte opprimente. Attraversò la strada deserta. Le fronde delle palme, flosce e a brandelli, facevano pensare a problemi di sonno in quei paraggi. Unico suono là fuori sull’asfalto era quello dei condizionatori, che soffiavano altra aria bollente e sgradita nell’atmosfera soffocante dell’esclusivo quartiere di Santa Clara, alla periferia di Siviglia.
Adesso Mario si faceva trascinare, come se avesse cambiato idea a proposito della mamma. Sul balcone all’ultimo piano della casa dei Vega un condizionatore perdeva acqua e le gocce cadevano sul fogliame della vegetazione rigogliosa, producendo un suono denso, come di sangue, in quel calore spaventoso. Il sudore imperlava la fronte di Consuelo, che si sentì prendere dalla nausea al pensiero della giornata che l’aspettava, del caldo che si aggiungeva a settimane di clima torrido. Premette i tasti del codice sul citofono del cancello esterno e si avviò lungo il vialetto, mentre Mario correva fino alla casa e spingeva la porta, battendo la testa contro il legno intagliato. Consuelo suonò il campanello, rintocchi elettronici di campana lontana nel silenzio dei doppi vetri della casa. Nessuna risposta. Un rivolo di sudore le si insinuò tra i seni. Mario picchiava sulla porta con il piccolo pugno, producendo il suono di un dolore sordo, insistente come un male cronico.
Erano passate da poco le otto. Consuelo si leccò il sudore che le si stava formando sul labbro.
Arrivò la domestica, ma non aveva le chiavi: la signora Vega in genere si svegliava presto, disse. Il giardiniere, un ucraino di nome Sergei, stava smuovendo la terra su un lato della casa e, colto di sorpresa, strinse il manico della zappa come se fosse un’arma, finché non si rese conto che si trattava di due donne. Il sudore gli scorreva sui pettorali e sui muscoli in rilievo del torso nudo giù fino ai pantaloni corti. Lavorava dalle sei e non aveva udito niente, per quanto ne sapeva la macchina era ancora in garage.
Consuelo affidò Mario alla domestica e portò Sergei sul retro della casa, dove l’uomo si arrampicò sulla veranda del soggiorno e scrutò attraverso le fessure della porta scorrevole e delle veneziane. La porta era chiusa a chiave. Sporgendosi dalla ringhiera della veranda l’uomo guardò dalla finestra della cucina, sopraelevata rispetto al giardino, e fece un balzo indietro.
«Che c’è?» domandò Consuelo.
«Non so. Signor Vega sul pavimento. Non muove.»
Consuelo attraversò la strada con la domestica e con Mario per tornare a casa sua. Il bambino aveva capito che era successo qualcosa e piangeva, divincolandosi per liberarsi dall’abbraccio della cameriera che non riusciva a consolarlo. Consuelo chiamò lo zero nove zero e si accese una sigaretta, cercando di concentrarsi mentre osservava la grassa domestica china sul bambino che, ormai nel pieno di un tremendo capriccio, era un animaletto che si contorceva e si dimenava sul pavimento, urlando fino a restare senza voce. Consuelo segnalò il fatto al centralino della Jefatura, lasciò il suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono, poi riattaccò in fretta e andò da Mario. Lo tirò su, calci e pugni e tutto il resto, e lo tenne stretto, continuando a bisbigliargli il suo nome all’orecchio finché il corpicino le si afflosciò tra le braccia.
Lo portò di peso al piano superiore, lo adagiò nel letto, si vestì e fece salire la domestica per tenere d’occhio il bambino addormentato. La donna sedette sulla sponda del letto, scontenta al pensiero di dover essere coinvolta nella tragedia di altre persone, tragedia che avrebbe infettato anche la sua vita.
Un’auto della polizia si fermò davanti alla casa dei Vega e Consuelo uscì per andare incontro al poliziotto e accompagnarlo sul retro dell’edificio. Il poliziotto si arrampicò sulla veranda e le domandò dove fosse andato il giardiniere. Consuelo attraversò il prato fino alla casetta di Sergei, che non c’era. Tornò indietro. Il poliziotto bussò con forza alla finestra della cucina, poi chiamò per radio la Jefatura e si calò giù dalla veranda.