Alle cinque del pomeriggio Falcón stava mangiando un panino al chorizo e bevendo una birra analcolica quando ricevette la telefonata di Guzmán: aveva le lettere decifrate e voleva mandargli la traduzione via e-mail. Come previsto, si trattava di una serie di istruzioni per Vega. Dove e quando ritirare il passaporto a Madrid, il percorso da seguire per Stoccolma, informazioni sui movimenti e sull’assenza di misure di sicurezza per Olof Palme, dove andare a Stoccolma per prendere l’arma, come disporne dopo averla usata e infine la via da seguire per tornare a Siviglia.
«Domani il mio giornale pubblicherà tutta la storia», lo informò Guzmán.
«Non mi aspettavo niente di diverso, Virgilio», disse Falcón, «farà male soltanto a gente che se lo merita.»
Alle sei di sera Falcón aveva pronto un dossier con la nuova deposizione in video di Manolo López e quelle scritte di Sebastián e di Salvador.
«E che succede se la bloccano anche su questo?» domandò Ramírez, mentre Falcón lasciava l’ufficio.
«Che lei sarà il nuovo Inspector Jefe del Grupo de Homicidios, José Luis.»
«Io no, grazie. Dirò che devono rivolgersi all’Inspector Pérez quando sarà tornato dalle ferie.»
Oltre alle deposizioni, Falcón prese con sé anche il contenuto della cassetta di sicurezza di Vega e stampò le lettere decifrate, spedite da Guzmán per posta elettronica. Poi salì dal Comisario Elvira, il quale era di nuovo a colloquio con Lobo. Non lo fecero aspettare.
Falcón parlò del contenuto della cassetta di sicurezza e lesse le lettere decifrate relative alle istruzioni sull’assassinio e sul bersaglio. I due uomini rimasero immobili sulle sedie, ammutoliti.
«E chi avrebbe potuto sapere questo, a parte gli ovvi personaggi del regime?» domandò Lobo dopo un po’. «Voglio dire, crede che gli americani ne fossero a conoscenza?»
«Di Vega sapevano qualcosa», rispose Falcón. «Non ho idea se sapessero anche tutto o parte di questo, ma ne dubito. Flowers aveva detto di non sapere che cosa stava cercando e ora gli credo. Speravano soltanto che non fosse qualcosa che potesse riflettersi negativamente su di loro o sul governo del tempo.»
«Pensa che gli americani possano essere coinvolti nella morte di Vega o a questo punto ritiene che sia stato ucciso da Marty, o che si sia suicidato?»
«Mark Flowers mi ha dato un’enorme quantità di informazioni, l’unico problema è che non so che cosa sia vero e che cosa non lo sia», rispose Falcón. «Una parte di me crede che non siano coinvolti, perché in realtà volevano scoprire proprio questo, e cioè il contenuto della cassetta di sicurezza, che non hanno mai trovato. Ma credo anche che Flowers abbia forse potuto mettere fine all’incertezza, collaborando nel chiudere la bocca a Vega per sempre.»
«Caso archiviato?» domandò Elvira.
Falcón si strinse nelle spalle.
«C’è qualcos’altro?» domandò Lobo, sbirciando il dossier in grembo a Falcón.
Falcón glielo porse e Lobo lesse, passando via via i fogli a Elvira. Man mano che scorrevano l’elenco di abusi sessuali i due uomini apparivano sempre più inquieti e quando ebbe finito Lobo guardò il parco fuori dalla finestra come soleva fare al tempo in cui occupava quell’ufficio. Parlando al vetro, disse:
«Posso indovinarlo, ma preferirei che mi dicesse che cosa vorrebbe lei».
«La mia richiesta minima per quanto riguardava i crimini commessi alla finca di Montes era che Ignacio Ortega venisse incriminato», rispose Falcón. «Non è stato possibile. Non sono d’accordo, ma lo capisco. Questo, però, è un caso separato. Niente di quanto succedeva alla finca di Montes verrà mai a galla in questo caso di violenza familiare. Voglio che venga nominato un Juez de Instrucción: non il Juez Calderón, ovviamente. Voglio arrestare Ignacio Ortega e voglio che risponda di queste accuse e di tutte le altre che potrebbero essergli contestate dopo aver parlato con le persone nell’elenco di Salvador Ortega.»
«Dovremo discuterne. Le faremo sapere», disse Lobo.
«Non voglio fare pressioni indebite sulla vostra decisione, ma desidero ricordarle ciò che mi ha detto ieri nel suo ufficio.»
«Me lo ricordi.»
«Ha detto: ‘Abbiamo bisogno di uomini come lei e come l’Inspector Ramírez, Javier. Su questo non deve avere dubbi.’»
«Capisco.»
«L’Inspector Ramírez e io vorremmo procedere all’arresto stanotte», disse Falcón prima di uscire.
Rimase seduto nel suo ufficio da solo, consapevole che Ramírez e Cristina Ferrera stavano aspettando notizie. Squillò il telefono e li udì balzare in piedi. Era Isabel Cano, gli domandava se avesse una risposta da darle sulla bozza di lettera da mandare a Manuela a proposito della casa di Calle Bailén. Non l’aveva ancora letta, rispose Falcón, ma non importava, perché aveva deciso che Manuela, se voleva la casa, avrebbe dovuto pagare il prezzo di mercato, meno la commissione di agenzia, e che non ci sarebbero state trattative.
«Che cosa ti è successo?»
«Il mio animo si è indurito, Isabel. E ora il sangue mi scorre freddo in vene d’acciaio. Mai sentito parlare del caso Sebastián Ortega?»
«Il figlio di Pablo Ortega, no? Quello che aveva rapito il bambino.»
«Precisamente. Ti dispiacerebbe occuparti del processo di appello?»
«Qualche nuova prova importante?»
«Sì», rispose Falcón. «Ma devo avvertirti che Esteban Calderón potrebbe non uscirne molto bene.»
«È più o meno ora che impari un po’ di umiltà», affermò Isabel. «Darò un’occhiata.»
Falcón riattaccò e sprofondò nel silenzio.
«Molto sicuro di sé, eh?» disse Ramírez nell’altra stanza.
«Noi siamo uomini di valore, José Luis.»
Questa volta il telefono squillò nella sala operativa. Ramírez si affettò a rispondere. Silenzio.
«Grazie», disse prima di riattaccare.
Falcón attese.
«José Luis?»
Ancora silenzio. Andò alla porta.
Ramírez alzò lo sguardo su di lui, la faccia bagnata di lacrime, la bocca allargata sui denti scoperti, lottando per dominare l’emozione. Fece un cenno con la mano a Falcón, non riusciva a parlare.
«Sua figlia», spiegò Cristina Ferrera.
Il sivigliano annuì, si asciugò gli occhi con il grosso pollice.
«Non ha niente», disse sottovoce. «Hanno fatto tutti gli esami possibili e non hanno trovato niente. Pensano a un virus.»
Si afflosciò sulla sedia, continuando a spremersi le grosse lacrime dagli occhi.
«Sapete una cosa?» disse Falcón. «Credo che sia il momento di andarci a bere una birra.»
Andarono in macchina tutti e tre fino al bar La Jota e in piedi al fresco bevvero birra e mangiarono bocconcini di baccalà, senza dare grande soddisfazione agli altri funzionari di polizia che ogni tanto si avvicinavano e cercavano di attaccare discorso. Erano troppo tesi. Alle venti e trenta il cellulare si mise a vibrare contro la coscia di Falcón. Lo portò all’orecchio.
«Siete autorizzati a procedere all’arresto di Ignacio Ortega con quei capi di accusa», disse la voce di Elvira. «Juan Romero è stato nominato Juez de Instrucción. Buona fortuna.»
Tornarono alla Jefatura, perché Falcón voleva che l’arresto avvenisse con una volante con i lampeggianti accesi, in modo che ai vicini di Ortega non passasse inosservato. Guidò Cristina Ferrera e parcheggiò l’auto davanti a una casa grande in El Porvenir, una villa che aveva due leoni di cemento sui pilastri del cancèllo, come aveva detto Sebastián.
Cristina Ferrera rimase in macchina. Ramírez suonò il campanello: aveva lo stesso suono elettronico di campane di quello di Vega. Venne ad aprire Ortega. Gli mostrarono il tesserino della polizia e Ortega guardò alle loro spalle l’auto con le luci lampeggianti.
«Vorremmo entrare», disse Ramírez, «a meno che non preferisca che parliamo in strada.»