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Calderón studiò le immagini, la fronte aggrottata.

«È in giardino, scalzo, a gennaio», fece notare Falcón, «e ce n’è un’altra in cui è sul lungofiume e piange.»

«Che cosa pensa di fare la signora, scattando queste fotografie?» domandò Calderón.

«È il suo lavoro», spiegò Falcón, «il suo modo di esprimersi.»

«Fotografare di nascosto chi soffre?» si stupì Calderón, inarcando un sopracciglio.

«Mi ha detto di essere interessata ai dissidi interiori, privati», chiarì Falcón, «al bisogno della gente che soffre di stare all’aperto… tra estranei, per cercare di liberarsi del dolore camminando.»

Si scambiarono un’occhiata, poi uscirono dalla stanza e si diressero verso quella di Mario. Calderón gli restituì il provino.

«Che cosa sarebbero tutte queste fanfaluche?» domandò Calderón.

«Ho ripetuto quello che mi ha detto lei.»

«Una specie di esperienza sostitutiva, forse?»

«Ha una mia fotografia alla parete», rivelò Falcón, ancora furioso. «Un ingrandimento di me che guardo il fiume dal Puente de Isabel II, accidenti!»

«È un paparazzo delle emozioni», osservò Calderón con una smorfia.

«I fotografi sono gente strana», disse Falcón, lui stesso fotografo dilettante. «Quel che conta per loro è trovare momenti perfetti della vita reale. Hanno un loro concetto della perfezione e lo inseguono… come una preda. Se sono fortunati, trovano immagini che esaltano la loro idea, la rendono più vera… ma in fin dei conti non fanno che catturare realtà effimere.»

«Fantasmi, dissidi interiori, realtà effimere…» disse Calderón. «Tutte cose inservibili.»

«Aspettiamo l’autopsia. Dovrebbe darci qualcosa di tangibile su cui lavorare. Nel frattempo vorrei trovare Sergei, il giardiniere, la persona che è stata più vicina alla scena del crimine e che ha scoperto il cadavere.»

«Un altro fantasma», disse Calderón.

«Dovremmo perquisire il suo alloggio in fondo al giardino.»

Calderón annuì.

«Forse andrò a dare un’occhiata alle fotografie della signora Krugman mentre voi perquisite l’alloggio del giardiniere», disse Calderón. «Voglio vedere quelle immagini a grandezza naturale.»

Falcón seguì con lo sguardo il magistrato che tornava sulla scena del secondo delitto e lo vide scambiare qualche parola con il Médico Forense, rigirando il telefonino tra le mani come se fosse una saponetta. Poi Calderón scese le scale di corsa. Falcón scrollò le spalle, cercando di non pensare al fatto che il giudice era sembrato stranamente imbarazzato e teso, diverso dal solito.

Mentre percorreva sudando il prato esposto al sole Falcón notò un mucchietto di carta annerita sulla griglia del barbecue. I fogli in superficie erano stati accartocciati e bruciati, tanto che si disintegrarono al tocco della sua penna, ma quelli sottostanti non erano stati completamente consumati dal fuoco e ciò che vi era scritto a mano pareva leggibile.

Chiamò Felipe perché lo raggiungesse in giardino con la sua attrezzatura e il poliziotto esaminò i fogli con gli occhialoni muniti di lenti di ingrandimento.

«Non riusciremo a recuperare un gran che», disse Felipe, «forse nulla.»

«A me sembrano lettere», disse Falcón.

«Riesco a leggere solo qualche parola. La scrittura è arrotondata, sembra di mano femminile. Scatterò qualche foto prima che distruggiamo tutto.»

«Sentiamo le parole incomplete che riesci a vedere», lo invitò Falcón.

Felipe pronunciò alcune parole che perlomeno servirono a confermare la lingua, lo spagnolo, poi scattò qualche fotografia con la macchina digitale. La carta annerita si distrusse completamente quando la penna penetrò più a fondo. Trovò alcune parole in fila — en la escuela, nella scuola — ma niente altro. In fondo alla pila Felipe si imbatté in una carta di una qualità differente: sollevò alcuni frammenti di filigrana dai resti anneriti.

«È una fotografia moderna», disse, «sono molto infiammabili, le parti trattate con gli agenti chimici si gonfiano, mentre la carta sottostante brucia e non rimane che questo. Le fotografie più vecchie non bruciano così facilmente, la carta è più spessa e di una qualità migliore.»

Cercò di stendere un pezzo di carta di un nero lucido e arricciata ai bordi, ma ancora bianca al centro. La rivoltò e rivelò la foto in bianco e nero del busto di una ragazza in piedi di fronte a una donna, la cui presenza era stata ridotta a una mano dalle dita inanellate posata sulla spalla della ragazza.

«Possiamo datarla?»

«Questo genere di materiale non è più in uso in Spagna da molti anni, ma la foto avrebbe potuto essere stata sviluppata privatamente o provenire dall’estero, dove si usa ancora quel genere di roba. Così… delicata», disse Felipe. «La pettinatura della ragazza parrebbe un po’ antiquata.»

«Anni Sessanta? Settanta?»

«Può darsi. Certamente non è una ragazza del popolo. E la mano della donna sulla sua spalla non credo abbia fatto lavori manuali. Direi che si tratta di straniere benestanti. Mi ricordano le mie cugine boliviane, sa, un po’ indietro con la moda.»

Riposero il pezzo di fotografia nel sacchetto di plastica, trovarono un posto all’ombra e si ripulirono.

«Si bruciano vecchie lettere e fotografie quando si vuole fare ordine in casa», suggerì Felipe.

«O nella propria testa.»

«Forse si è veramente suicidato e la nostra è solo immaginazione.»

«Perché si vorrebbe bruciare questo genere di ricordi?» domandò Falcón, parlando a se stesso. «Ricordi dolorosi, una parte della propria vita che non si vuole far scoprire alla moglie…»

«O una parte della propria vita che non si vuole far scoprire a un figlio», suggerì Felipe, «dopo che si è morti.»

«Forse si tratta di materiale pericoloso e non si vuole che cada nelle mani sbagliate.»

«Quali mani?»

«Sto solo dicendo che in genere ci si libera di certe cose perché sono dolorose, imbarazzanti o pericolose.»

«Potrebbe anche essere una foto della moglie da ragazza», suggerì Felipe. «Che significato poteva avere?»

«Sono già stati rintracciati i genitori della signora Vega?» si informò Falcón. «Dovrebbero essere loro a tenere il bambino anziché la signora Jiménez.»

Se ne stava occupando Pérez, gli rispose Felipe. Si recarono insieme all’alloggio del giardiniere. La porta non era chiusa a chiave, le due stanze erano soffocanti, prive d’aria e del tutto disadorne. Il materasso era a metà fuori dal letto, come se sotto vi fosse stato nascosto qualcosa o semplicemente perché veniva usato per dormire fuori. L’unico altro mobile era una cassetta capovolta, usata a mo’ di comodino, mentre in cucina non vi erano che un fornello a gas e una bombola. Mancava il frigorifero, ma c’erano degli avanzi su uno scaffale.

«Il personale non godeva un gran che del lusso dei signori Vega», commentò Felipe.

«Sempre meglio che vivere a Tres Mil Viviendas», ribatté Falcón. «Ma perché scappare?»

«Allergico alla polizia», ipotizzò Felipe. «Questa gente è presa da una crisi d’asma non appena vede zero nove uno scritto sulla parete di una cabina telefonica. Un cadavere… be’, uno non rimane nei paraggi in attesa del disastro, no?»

«Oppure potrebbe aver visto qualcosa o qualcuno», disse Falcón. «Deve aver saputo che il signor Vega aveva bruciato le sue carte, forse lo ha visto scalzo in giardino o forse ha visto addirittura ciò che è accaduto la notte scorsa.»

«Prenderò qualche impronta e la metterò nel computer», propose Felipe.