«Che cosa le ha chiesto?» domandò Calderón, scostandosi dalla parete alla quale era appoggiato.
«Avevo visto che Vega aveva bruciato delle carte nel barbecue e volevo vedere se stesse bruciando qualcosa nelle foto che gli aveva fatto lei. È così, infatti.»
«Tutto qui?» disse Calderón, con aria di accusa e di irrisione insieme.
Falcón si sentì riprendere dalla collera.
«E lei ha concluso qualcosa con la signora, Esteban?»
«Che intende dire?»
«È rimasto là per mezz’ora con il cellulare spento, pensavo che aveste parlato di qualcosa di importante in relazione all’indagine.»
Calderón aspirò con forza il fumo della sigaretta.
«Le ha detto di che cosa abbiamo parlato?»
«Salendo le scale vi ho sentito parlare delle sue fotografie», disse Falcón.
«Sono straordinarie», affermò Calderón, annuendo con aria seria. «Ha molto talento.»
«Non era stato lei a definirla un paparazzo delle emozioni?»
«L’ho detto prima che mi parlasse del suo lavoro», ribatté il giudice, agitando in direzione di Falcón le dita che stringevano la sigaretta. «È l’idea che sta dietro le foto a renderle ciò che sono.»
«E così non sono soltanto Hola! con sentimento?»
«Questa è buona, Falcón, me la ricorderò», disse Calderón. «Niente altro?»
«Ne riparleremo dopo i risultati dell’autopsia. Andrò a prendere la sorella di Lucía Vega all’AVE e più tardi l’accompagnerò dalla signora Jiménez.»
Calderón fece segno di sì, senza aver capito di che cosa Falcón stesse parlando.
«Ora sentirò il signor Ortega… è l’altro vicino», precisò Falcón, incapace di trattenere il sarcasmo.
«So benissimo chi è», ribatté Calderón.
Falcón si avviò alla porta e nel voltarsi vide che il Juez era già perso nelle sue fantasticherie.
«Quello che ho detto stamani, intendevo veramente dirlo, Esteban.»
«Che cos’era?»
«Credo che lei e Inés sarete molto felici insieme», disse Falcón. «Siete una coppia ben assortita.»
«Sì, è vero, lo siamo. Grazie.»
«Farà meglio a venire via con me», riprese Falcón, «sto per chiudere a chiave.»
Lasciarono la casa e si separarono sul vialetto di accesso, Falcón chiuse il cancello con un telecomando che aveva trovato in cucina. La villa di Ortega, a sinistra di quella dei Vega, era ricoperta di un folto rampicante e al riparo del suo fogliame Falcón osservò i movimenti di Calderón. Il magistrato indugiò accanto alla macchina, sembrò controllare se vi fossero messaggi sul cellulare, fece qualche passo in direzione della casa dei Krugman, si fermò, passeggiò avanti e indietro, mordicchiandosi l’unghia del pollice. Scotendo la testa, Falcón suonò il campanello e disse il suo nome al citofono. Calderón alzò le braccia e tornò alla sua automobile.
«Bravo, Esteban», disse Falcón a se stesso, «non pensarci nemmeno.»
Il fetore di liquame aveva già raggiunto le narici di Falcón mentre era in attesa al cancello e quando questo si aprì si fece insopportabile. Ortega lo fece entrare in un tanfo sufficiente a dargli la sensazione di soffocare, tra grossi mosconi azzurri che ronzavano minacciosi come bombardieri pesanti. Sui muri della casa affioravano chiazze marroni che risalivano lungo l’angolo, dove si era formata una larga crepa che correva lungo la facciata. La puzza di marcio impregnava l’aria. Ortega sbucò da dietro la casa, dal lato verso il prato.
«Non uso mai l’ingresso principale», spiegò, stringendo la mano a Falcón, una stretta da fratturargli le ossa. «Come avrà capito c’è un problema su quel lato della casa.»
In quella stretta di mano c’era tutto Pablo Ortega, tutto il suo fisico compatto, solido come una roccia, fremente di elettricità, i capelli lunghi, folti e candidi che gli scendevano oltre la camicia col collo alla coreana. I baffi erano altrettanto impressionanti, ma il fumo li aveva ingialliti. Due solchi che scendevano dalle entradas dei capelli fino alle sopracciglia ebbero l’effetto di risucchiare Falcón negli occhi castano scuro.
«Si è trasferito qui da poco, non è così?» disse Falcón.
«Nove mesi fa… e sei settimane dopo mi succede questo casino. Nella casa erano state costruite due stanze sopra la fossa biologica che raccoglie gli scarichi delle quattro case qui intorno. Poi i precedenti proprietari ne hanno costruite altre due sopra le prime e sei settimane dopo che mi avevano venduto la casa, la soletta del pozzo nero ha ceduto, il muro si è abbassato e ora mi ritrovo con la merda di quattro case che affiora dal pavimento.»
«Riparazioni costose.»
«Devo buttare giù quel lato dell’edificio, riparare il pozzo nero perché possa reggere il peso e poi ricostruire», spiegò Ortega. «Mio fratello ha mandato un perito. Dice che devo aspettarmi una spesa di venti milioni di pesetas, o quel cavolo che è in euro.»
«L’assicurazione?»
«Io sono un artista, non vado in giro a firmare carte di importanza vitale finché non è troppo tardi.»
«Una vera sfortuna.»
«In questo sono un vero esperto. Come lei», disse Ortega. «Noi ci siamo già conosciuti.»
«Davvero?»
«Sono stato a casa sua in Calle Bailén, lei avrà avuto diciassette o diciotto anni.»
«In quella casa sono passati quasi tutti gli artisti di Siviglia. Mi dispiace di non ricordarmi di lei.
«Un brutto affare quello», riprese Ortega, posando una mano sulla spalla di Falcón. «Non lo avrei mai immaginato. Lei ha dovuto sopportare il martellamento dei media. Ho letto tutto, naturalmente, non ho potuto resistere. Qualcosa da bere?»
Pablo Ortega, in bermuda blu ed espadrillas nere, camminava a gambe larghe. Con quei muscoli avrebbe affrontato agevolmente una maratona.
Entrarono in casa passando dalla porta della cucina e mentre Ortega andava a prendere birra e Casera, Falcón sedette in soggiorno, una stanza fredda e priva di odori, a parte quello di sigaro, piena zeppa di mobili, quadri, libri, ceramiche, oggetti di vetro e tappeti. Sul pavimento, appoggiato a un cassettone di quercia, stava un paesaggio di Francisco Falcón. Javier lo guardò con distacco.
«Carisma», disse Ortega, ritornato con birra, olive e capperi, accennando al dipinto. «È come un campo magnetico. Non lo si vede, eppure ha il potere di interrompere i normali livelli di percezione. Ora che a tutto il mondo è stato detto che il re è nudo, è molto facile capire, tanto è vero che tutti quei critici d’arte tanto disprezzati da Francisco non fanno che scrivere come fosse evidente che i quattro nudi si distaccavano completamente dal resto della sua opera. Io sono con Francisco. Gente spregevole, si beano della rovina altrui e non capiscono come in realtà non scrivano che del loro proprio fallimento. Carisma. Noi siamo normalmente costretti a vivere in un tale stato di noia che chiunque riesca ad animare in qualche modo la nostra vita è trattato come un dio.»
«Francisco in genere parlava di genio, non di carisma», disse Falcón.
«Quando si è diventati maestri di carisma, non si ha più bisogno del genio.»
«Questo certamente lo sapeva.»
«Verissimo.» Ortega sghignazzò, sprofondandosi nella poltrona.
«Veniamo al motivo della mia visita», disse Falcón.
«Sì, be’, ho capito che qualcosa non andava non appena ho visto quel bastardo dalla faccia di topo là fuori, tutto azzimato e a suo agio in quel costoso abito di lino», cominciò Ortega. «Diffido sempre delle persone che si vestono di tutto punto per andare al lavoro, vogliono abbagliare con l’involucro, mentre il vuoto che c’è sotto brulica di ogni specie di vita tenebrosa.»