La sigaretta all’improvviso ebbe un cattivo sapore per Ramírez, che la spense con foga, soffiandosi il fumo in grembo, quasi attribuisse alla sigaretta la responsabilità della malattia della figlia. Falcón cercò di risollevarlo, ricordandogli che si trattava soltanto di esami. Lo esortò a restare calmo, ad avere un atteggiamento positivo e gli disse che poteva prendere tutti i permessi che voleva. Ma Ramírez desiderava solo lavorare, era l’unico modo per fermare la ridda di pensieri. Falcón lo portò nel suo ufficio, prese altre due aspirine e lo aggiornò sulla morte dei Vega.
Pérez e Cristina Ferrera si presentarono alle otto, gli altri due uomini della squadra, Baena e Serrano, erano fuori per una ricerca porta a porta. Falcón decise di agire su due fronti. Avrebbe eseguito una perquisizione nella proprietà dei Vega, mentre Ramírez avrebbe cominciato dall’azienda di Rafael Vega, interrogando i dirigenti, l’amministratore e visitando tutti i cantieri. Avrebbero dovuto anche rintracciare Sergei, il giardiniere, e ottenere informazioni sui russi che Pablo Ortega aveva visto la Noche de Reyes davanti alla casa dei Vega.
«Dove lo cerchiamo Sergei?» domandò Pérez.
«Be’, potete scoprire se nei cantieri di Vega lavorino dei russi o degli ucraini, tanto per cominciare. Dubito che sia il solo.»
«Se vogliamo perquisire l’ufficio di Vega, da quanto sappiamo di Vásquez dovremo avere un mandato.»
«E non ne otterremo uno da un giudice a meno di poter provare che le circostanze sono sospette, e per questo dobbiamo aspettare i risultati delle autopsie», convenne Falcón. «Devo accompagnare qualcuno della famiglia di Lucía all’Instituto per identificare i cadaveri. Li andrò a prendere verso mezzogiorno e così vedrò se quel frammento di fotografia che abbiamo trovato significa qualcosa per loro.»
«Perciò fino ad allora dobbiamo contare solo sulla cortesia del signor Vásquez?» disse Ramírez.
«Mi ha già detto di parlare con il contabile e mi ha fornito i suoi dati», rispose Falcón, rivolgendosi poi a Cristina Ferrera. «Saputo qualcosa di quella targa?»
«Quale targa?» domandò Ramírez.
«Qualcuno mi ha seguito fino a casa ieri sera su una Seat Cordoba blu.»
«Qualche idea?» disse Ramírez mentre la ragazza chiamava la polizia stradale.
«È troppo presto per dirlo, ma non mi sono sembrati preoccupati che li vedessi e prendessi il numero di targa.»
«Si sa soltanto che la targa è stata rubata a una Volkswagen Golf a Marbella», annunciò Cristina Ferrera. «Niente altro.»
Falcón e Ferrera si fecero dare le foto della scena del delitto da Felipe e Jorge e scesero, dirigendosi alla macchina. Cristina Ferrera vestiva sempre come se dovesse scomparire da un momento all’altro senza lasciare traccia. Non usava il trucco e aveva un solo gioiello, una catenina con un crocifisso. Aveva un viso largo e piatto, attraversato da lentiggini il cui traffico era rallentato dal naso, occhi attenti e scuri che si muovevano lentamente. Non era un fisico che facesse effetto, eppure possedeva una presenza forte che aveva impressionato Falcón durante il colloquio per l’assunzione. Ramírez aveva guardato la sua fotografia considerando solo l’aspetto, ma la curiosità di Falcón era stata solleticata. Perché mai una ex suora voleva unirsi a una squadra Omicidi? La risposta preparata era stata che voleva far parte di un gruppo impegnato dalla parte del Bene contro il Male. Ramírez l’aveva avvertita che nel loro lavoro non c’era niente di teologico, che in realtà gli omicidi erano faccende prive di logica, risultato di collassi e di cortocircuiti nella società, e che non avevano niente a che fare con i combattimenti delle schiere celesti.
«L’Inspector Jefe stava chiedendo spiegazioni a una persona che aveva pensato di farsi suora», gli aveva risposto freddamente Cristina Ferrera. «Avevo la convinzione ingenua che, dopo la Chiesa, l’istituzione migliore dove avrei potuto fare qualcosa di buono fosse la polizia. I miei dieci anni sulle strade di Cadice mi hanno insegnato che questo è possibile solo in qualche rara occasione.»
Falcón aveva già deciso di accettarla nella squadra, ma Ramírez non aveva ancora finito con lei.
«E perché ha abbandonato la sua vocazione?»
«Ho conosciuto un uomo, Inspector. Sono rimasta incinta, mi sono sposata e ho avuto due figli.»
«In quest’ordine?» aveva domandato Ramírez e Ferrera aveva fatto cenno di sì, senza distogliere da lui lo sguardo dei suoi occhi scuri.
E così, un angelo caduto, per giunta, una Sposa di Cristo che aveva dovuto cercare panni più mortali. Falcón aveva preso la sua decisione. Il trasferimento da Cadice era stato lento, ma i pochi giorni trascorsi da quando lei si era unita alla squadra lo avevano convinto di aver fatto la scelta giusta. Ramírez le aveva perfino offerto un caffè; ma così cambiavano le cose nella vita: Ramírez, con la misteriosa malattia della figlia, si era trovato a desiderare un sostegno morale più che una consolazione corporea, cercata abitualmente tra le segretarie del tribunale, le ragazze incontrate nei bar, le commesse dei negozi e perfino, sospettava Falcón, tra le prostitute nelle quali si imbatteva per lavoro.
Cristina Ferrera si mise alla guida, Falcón preferì perdersi in vaghi pensieri che forse avrebbero potuto condurre a qualche buona idea. Non parlarono fino a Santa Clara: a Falcón lei piaceva anche per la sua resistenza al gene andaluso, che induceva a parlare senza interruzione. I pensieri si muovevano in lenti cerchi nauseanti nella mente di Falcón. Come cambiavano gli uomini in una crisi. Ramírez era andato in chiesa, Falcón non era mai stato attratto dalle chiese, si era sentito un imbroglione. Come il signor Vega, era sceso al fiume, la cui attrazione, doveva ammetterlo, non era sempre stata positiva; in certi momenti la soluzione alternativa che il fiume gli aveva offerto lo aveva costretto a correre a casa e a rifugiarsi nel whisky.
Si fermarono davanti a casa dei Vega e Falcón usò il telecomando per aprire il cancello. In casa l’aria condizionata non era stata spenta. Falcón accompagnò Ferrera in giro per le scene del delitto, il resto della casa e il giardino, compreso l’alloggio di Sergei, dandole nel frattempo un profilo delle vittime. Tornarono poi sulla scena ed esaminarono le foto della polizia. Falcón le disse ciò che sapeva, ma non sottolineò in particolare l’ipotesi del suicidio o dell’omicidio, volendo che Cristina Ferrera vedesse le scene del delitto dal punto di vista di una donna, che si mettesse nei panni di Lucía Vega, esaminando i suoi oggetti personali e rivivendo le sue azioni.
Andò nello studio di Vega e sedette alla scrivania sotto il manifesto della corrida. Il computer portatile mancava, era stato portato al laboratorio, sul ripiano soltanto il telefono e il riquadro che segnava la posizione del computer. Falcón guardò la fila di numeri memorizzati nell’apparecchio telefonico, quelli dell’ufficio e il diretto di Vásquez, oltre ai numeri dei Krugman e di Consuelo. L’ultima casella era vuota. Sollevò il ricevitore e premette quel tasto.
«Da… zdrastvuitye, Vasili», disse una voce che evidentemente si aspettava qualcun altro.
«Il suo numero di telefono è stato estratto nella nostra grande lotteria», disse Falcón. «Sono lieto di informarla che ha vinto un premio per lei e sua moglie. Non deve fare altro che darmi il suo nome e indirizzo e io le dirò dove ritirare il meraviglioso premio.»
«Chi parla?» domandò la voce con un accento molto marcato.
«Nome e indirizzo, prego.»
Una mano coprì il ricevitore, voci soffocate.
«Che premio è?»
«Nome e…»
«Mi dica qual è il premio» lo interruppe brutalmente la voce.
«Un orologio per lei e sua…»
«Ce l’ho già l’orologio.» La comunicazione fu interrotta di colpo.
Falcón prese nota di chiedere a Vásquez di quei russi. I cassetti della scrivania non rivelarono niente di insolito. La Heckler Koch era stata portata via per essere esaminata. Aprì gli schedari con le chiavi che aveva trovato il giorno prima e frugò nelle cartelle del telefono, della banca, dell’assicurazione. Le cartelle urtarono qualcosa sul fondo, un’agenda a fogli mobili rilegata in pelle.