«Non sono venuta per curiosare, qualsiasi cosa possa pensare delle mie fotografie.»
«Credevo che le storie dei suoi soggetti, le cause delle loro sofferenze interiori, non la interessassero.»
«Non stiamo parlando del mio lavoro.»
«Sfortunatamente stiamo parlando del mio. Io devo lavorare, signora Krugman, perciò, se vuole scusarmi…» disse Falcón.
Suonarono alla porta e Falcón andò ad aprire.
«Mi sono chiusa fuori, Inspector Jefe», si scusò la poliziotta.
Maddy Krugman uscì con passo tranquillo, passando tra loro. Cristina Ferrera seguì Falcón nello studio, dove l’Inspector Jefe sedette alla scrivania.
«Mi dica», la invitò, guardando fuori dalla finestra e chiedendosi che cosa avesse in mente Maddy Krugman.
«La signora Vega era maniaco-depressiva», annunciò Cristina Ferrera.
«Sappiamo che aveva problemi d’insonnia.»
«C’è una grande varietà di pillole nel comodino del marito.»
«Era chiuso, se ben ricordo, e le chiavi sono qui.»
«Litio, per esempio», continuò la ragazza. «Probabilmente era lui a somministrarle i medicinali… o così credeva. Ho trovato un duplicato della chiave nel guardaroba della signora, nonché una cartina con diciotto pillole per dormire. E non mancano le prove di comportamenti ossessivo-compulsivi. Ho trovato anche un mucchio di cioccolata nel frigo e nel freezer molto più gelato di quanto possa mangiarne un bambino.»
«Che ne pensa del rapporto con il marito?»
«Dubito che facessero sesso, date le condizioni di lei e visto che lui le dava i medicinali. Probabilmente il marito trovava soddisfazione altrove… ma questo non impediva alla moglie di comprare una grande quantità di biancheria sexy.»
«E il bambino?»
«La madre teneva sul comodino una fotografia in cui è con il figlio appena nato. Sta benissimo in quella foto, raggiante, bella, sicura di sé. Credo che guardasse molto quella fotografia, le ricordava la donna che era stata.»
«Depressione post partum?»
«Può darsi. Non usciva molto. Sotto il letto ci sono pile di cataloghi di vendite per corrispondenza.»
«Lasciava che il bambino dormisse dalla vicina piuttosto spesso.»
«Difficile andare avanti quando la vita ti abbandona così», disse Ferrera, abbassando lo sguardo sulla traccia di rossetto sulla tazza di caffè. «Era quella la vicina?»
«No, un’altra», rispose Falcón, scotendo la testa.
«Non mi sembrava il tipo materno, infatti.»
«Allora, che cosa crede che sia successo qui?» le domandò Falcón.
«In questa casa c’è disperazione a sufficienza per indurre a credere che l’uomo, avendo deciso di uccidersi, abbia voluto anche uccidere la moglie per liberarla dalle sue sofferenze.»
«Perché il pugno sulla mandibola?»
«Per farle perdere conoscenza, forse?»
«Non le sembra un eccesso di violenza? Probabilmente la donna doveva essere già intontita dal sonno.»
«Forse lo ha fatto per risvegliare la violenza che aveva dentro.»
«O forse la donna aveva udito le urla del marito agonizzante e ha sorpreso l’assassino, che ha dovuto ammazzare anche lei», ipotizzò Falcón.
«Dov’è il taccuino usato da Vega per scrivere il messaggio?»
«Bella domanda. Non è stato trovato. Ma è possibile che abbia scritto su un foglietto che aveva nella tasca della vestaglia.»
«Chi ha comprato lo sturalavandini?»
«Non la domestica», rispose Falcón.
«Sappiamo quando è stato comprato?»
«Non ancora, ma se è stato acquistato in un supermercato, non ne sapremo molto di più.»
«Sembrerebbe che la signora Vega si fosse preparata a passare la serata da sola, lo faceva spesso e si organizzava.»
«Si è sempre soli quando la nostra psiche è malata», osservò Falcón.
«Aveva una scatola piena dei suoi film preferiti, tutta roba romantica. Un DVD è ancora dentro il lettore. Aveva ricevuto la telefonata della vicina che le teneva il bambino, non aveva impegni. Quando è rientrato il marito?»
«Mi dicono che in genere rientrava tardi… verso mezzanotte.»
«Si accorderebbe con il quadro generale: rimandare il più possibile il ritorno alla disperazione domestica», disse Ferrera. «Probabilmente la signora Vega non aveva piacere di vederlo. Ha udito la macchina… o forse no, con questi vetri alle finestre. Perciò è più probabile che lo abbia sentito entrare in casa dal garage. Ha spento il DVD ed è corsa di sopra, lasciando le pantofole. Poi lui l’ha raggiunta a letto o, perlomeno…»
«Come sa che l’ha raggiunta? Il guanciale di lui era intatto, nelle foto scattate dalla polizia.»
«Ma il lenzuolo e la coperta erano stati tirati giù… dunque potrebbe essere stato sul punto di infilarsi nel letto…»
«Ed è stato distratto da qualcosa.»
«Sappiamo dall’azienda telefonica se siano arrivate altre telefonate dopo che la vicina ha chiamato per il bambino?»
«Non ancora. Potrà lavorare su questo quando saremo tornati in ufficio.»
«L’unica altra cosa strana che ho notato è che nelle foto della scena del delitto l’uomo ha l’orologio come lo si porta normalmente, col quadrante all’esterno, mentre in tutte le fotografie che ho visto nella casa lo ha sempre girato all’interno.»
«Che cosa ne deduce?»
«O si è girato mentre l’uomo lottava con se stesso o con un assalitore», rispose Ferrera, «oppure l’orologio è venuto via ed è stato rimesso al polso da qualcuno che non sapeva come lui lo portava.»
«E perché avrebbe voluto rimetterglielo?»
«Be’… se fosse caduto in seguito a una lotta con un assalitore che voleva far sembrare la cosa un suicidio, la presenza di un’altra persona non sarebbe stata così evidente, con l’orologio al polso del morto anziché sul pavimento.»
«Che cinturino aveva l’orologio?»
«Sembra un cinturino di metallo, del tipo che si può sfilare facilmente durante una lotta o che può anche girarsi sul polso, perciò…»
«Comunque sia, complimenti per averlo notato», disse Falcón. «È possibile che non ci aiuti a dimostrare che si è trattato di omicidio, ma è indicativo delle stranezze di questo caso. Ora non dobbiamo fare altro che trovare l’elemento probatorio incontrovertibile, per convincere il Juez Calderón che abbiamo un caso di omicidio. Sappiamo che il signor Vega ha bruciato qualcosa in fondo al giardino. Che cosa le suggerisce questo?»
«Si stava liberando di qualcosa in vista di qualcosa.»
«Erano documenti personali, lettere, fotografie che gli causavano grande dolore.»
«E non voleva che fossero trovati, li aveva nascosti e poi…»
«Se lei fosse il signor Vega e volesse nascondere qualcosa, dove la nasconderebbe?»
«Nel mio territorio… qui nel mio studio o nella macelleria.»
«Ho già perquisito lo studio», disse Falcón.
Andarono nella macelleria. Cristina Ferrera accese le brutali luci al neon e Falcón girò intorno alla massiccia tavola di legno infilandosi i guanti di lattice. Aprirono il primo congelatore e Falcón cominciò a tirare fuori tutti i tagli di carne. Quando nei congelatori non rimase più nulla, Cristina Ferrera si infilò nelle tane buie e gelide con la piccola torcia elettrica in bocca e un coltello per grattare via il ghiaccio sui lati degli scomparti. In un angolo in fondo al secondo congelatore trovò ciò che stavano cercando. Un pacchetto avvolto nella plastica e incrostato di ghiaccio. Lo allungò a Falcón. Rimisero a posto la carne.
Il pacchetto si rivelò un sacchetto da freezer chiuso in alto da un laccetto. All’interno un passaporto argentino rilasciato a Buenos Aires nel mese di maggio del 2000 a nome di Emilio Cruz. La foto era di Rafael Vega con un paio di occhiali dalla montatura antiquata e pesante. C’era anche un’unica chiave senza alcuna etichetta.
«Una via di fuga», disse Falcón. «Che cosa significa?»