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«Be’, se aveva pronta una via di fuga come Emilio Cruz», suggerì Cristina Ferrera, «forse anche il nome Rafael Vega era servito allo stesso scopo.»

«Perciò controlleremo il documento di identità di Vega e risaliremo all’ufficio che lo ha emesso.»

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Giovedì 25 luglio 2002

Nell’ufficio di Consuelo Jiménez cercarono tra le vecchie foto del marito e trovarono quelle in cui erano presenti Pablo Ortega o Rafael Vega. Uscirono dal centro storico per dirigersi verso lo studio del dottor Rodríguez, in un barrio vicino a Nervión. Lungo il tragitto Falcón ricevette la telefonata del Médico Forense: le autopsie erano terminate ed entrambi i cadaveri pronti per l’identificazione. Cristina Ferrera chiamò Carmen Ortiz e le disse di tenersi pronta per essere accompagnata all’Instituto Anatómico Forense.

Il dottor Rodríguez era in ritardo e Falcón aspettò sfogliando El País. Sorvolò su una foto di sei marocchini annegati sulla spiaggia di Tarifa, vittime di un ennesimo tentativo fallito di raggiungere l’Europa. La sua attenzione fu attirata da un articolo sul processo a Slobodan Milosević alla Corte penale dell’Aja, o meglio, da un trafiletto che informava su un fenomeno curioso che si stava protraendo nel tempo: dall’inizio di luglio, quando era entrato in vigore lo statuto di Roma che definiva il funzionamento dell’organismo, gli americani, per ragioni non chiare, continuavano a fare pressioni sui governi firmatari del trattato affinché dichiarassero che non avrebbero portato davanti alla Corte nessun cittadino statunitense. Veniva pubblicata la lista delle nazioni che subivano le pressioni americane, ma niente altro. L’infermiera lo chiamò e lo fece entrare nello studio del dottor Rodríguez.

Il medico, di età vicina ai quaranta, si asciugò le mani con la salvietta di carta e controllò le credenziali di Falcón. Si misero a sedere e Falcón raccontò della morte di Vega. Il medico richiamò la cartella clinica della vittima sullo schermo del computer.

«Il 5 luglio scorso il signor Vega aveva un appuntamento con lei», disse Falcón. «Per quanto ne so, quest’anno è stata l’unica volta che lo ha visto.»

«È stata l’unica volta in assoluto. Era un paziente nuovo, i suoi dati li avevo avuti dal dottor Álvarez.»

«Dalla sua agenda risulta un appuntamento con un certo dottor Diego prima che Vega venisse da lei.»

«I dati clinici provenivano dal dottor Álvarez. Può darsi che sia stato anche da quel dottor Diego e abbia deciso che non andava bene per lui.»

«Dalla sua visita o dai dati che ha avuto dall’altro medico risulta che potesse avere tendenze suicide?»

«Soffriva di ipertensione, ma niente di catastrofico. Era un soggetto ansioso e mi aveva descritto alcuni episodi che sembravano classici attacchi di panico. Li attribuiva alle tensioni sul lavoro. Secondo le note del dottor Álvarez, dall’inizio dell’anno soffriva di una lieve forma di ansia, certamente non tanto seria da richiedere una prescrizione.»

«Il dottor Álvarez ne aveva informato la moglie del signor Vega? La donna soffriva di un disturbo mentale grave e prendeva il litio.»

«Non lo ha fatto, e questo suppongo voglia dire che non ne era al corrente», rispose Rodríguez. «È una cosa che certamente avrà contribuito allo stress del signor Vega.»

«Lei sa perché avesse lasciato il dottor Álvarez?»

«Nelle sue note non c’è niente di specifico, ma ho visto che il dottor Álvarez aveva consigliato una terapia psicologica. Quando io stesso l’ho consigliata, il signor Vega si è opposto recisamente, perciò è possibile che avessero avuto un disaccordo a questo proposito.»

«E così la lieve forma di ansia si stava aggravando e il signor Vega sperava in un approccio diverso da parte sua?»

«Il mio approccio sarebbe stato di ridurre l’ansia con uno psicofarmaco leggero per poi passare a una qualche forma di psicoterapia quando avesse avuto più sotto controllo la situazione.»

«Le ha parlato di problemi d’insonnia?»

«Ha accennato a un episodio di sonnambulismo. Sua moglie si era svegliata alle tre di notte e lo aveva visto uscire dalla stanza. La mattina dopo, quando gli aveva riferito la cosa, il signor Vega non ricordava niente.»

«Allora le ha parlato della moglie?»

«Descrivendo l’episodio, sì, ma ha anche detto che non si poteva contare su di lei perché prendeva dei sedativi. Era accaduta anche qualche altra cosa che lo aveva convinto della possibilità di soffrire di sonnambulismo, ma non aveva voluto dire altro. Era la prima visita, ricorda? Credevo che avrei avuto il tempo di convincerlo a parlarne più a fondo, prima o poi.»

«Aveva pensato che fosse un pericolo per se stesso?»

«Ovviamente no. I disturbi psichici di quel genere non sono insoliti, si devono prendere decisioni sulla base di un’istantanea della vita del paziente. Non era eccessivamente agitato, né calmo in modo innaturale, i due estremi che segnalano il pericolo. Non aveva sofferto di depressione, era venuto da me dopo aver visto un altro medico, sembrava intenzionato a risolvere il problema. Voleva qualcosa che riducesse il livello di ansia e non voleva avere un altro attacco di panico. Sono tutti segnali positivi.»

«Sembra che cercasse un rimedio in fretta, più che una cura.»

«Gli uomini fanno più resistenza all’idea di parlare dei loro pensieri intimi», spiegò Rodríguez. «Se i problemi possono essere risolti con una pillola, tanto meglio. Sono molti i medici che ritengono gli esseri umani un mucchio di elementi chimici per i quali la cura giusta sono gli psicofarmaci.»

«Perciò, secondo lei, il signor Vega era angosciato, ma non aveva tendenze suicide?»

«Sarebbe stato un bene che avessi saputo della moglie», rispose Rodríguez. «Quando si hanno tensioni sul lavoro e nessun sollievo a casa, e forse nemmeno l’amore… be’, è una situazione che può portare un animo inquieto alla disperazione.»

Falcón sedeva incuneato contro la portiera, mentre Cristina Ferrera guidava. Quello era il secondo giorno dell’indagine e stava già mettendo in dubbio il suo istinto. Fino a quel momento non esisteva nessun elemento che potesse convalidare l’ipotesi dell’omicidio, mentre l’opzione suicidio pareva sempre più probabile dopo ogni colloquio. Anche se sotto le unghie del signor Vega non erano state trovate fibre corrispondenti a quelle del guanciale, ciò indicava soltanto che qualcun altro avrebbe potuto essere presente, ma non era una prova concreta. Ramírez chiamò dalla sede della Vega Construcciones per riferire che Sergei era immigrato legalmente e Serrano e Baena stavano facendo circolare la sua foto nella zona di Santa Clara e del Polígono San Pablo.

I Cabello abitavano nell’attico di un condominio risalente agli anni ’70, nel quartiere esclusivo di El Porvenir, di fronte al bingo di Calle de Felipe II.

«Non si è mai troppo ricchi per giocare a bingo», osservò Falcón mentre salivano all’appartamento, dove Carmen Ortiz stava avendo una crisi isterica. Era in camera da letto con il marito, arrivato da Barcellona quella mattina. I loro figli, con Mario nel mezzo, erano seduti sul divano buoni buoni. Ad aprire venne il vecchio signor Cabello, che li condusse in salotto, dove Cristina Ferrera si inginocchiò accanto ai bambini e in pochi minuti riuscì a farli ridere e giocare. Il signor Cabello andò a chiamare la figlia, ma tornò con il genero. Andarono tutti e tre in cucina.

«Mia moglie non vuole vedere i cadaveri», disse il genero.

«Saranno dietro un pannello di vetro, sembreranno addormentati», spiegò Falcón.

«Ci vengo io», disse il signor Cabello con decisione.

«Come sta sua moglie?» si informò Falcón.

«Le sue condizioni sono stabili, ma è ancora nel reparto di terapia intensiva, priva di conoscenza. Le sarei grato se potesse accompagnarmi all’ospedale, dopo.»