«Niente sui polsi. Ci sono segni di lesioni sulle braccia all’interno del gomito, ma la vestaglia gli era scivolata di dosso e quindi è possibile che sia successo mentre si contorceva sul pavimento. Ci sono segni sulla testa e sul collo e unghiate sulla gola. Direi che se li è fatti da solo, aveva tracce del prodotto sulle mani. Ma è anche vero che quei segni possono essere stati lasciati da qualcuno che lo immobilizzava bloccandogli il collo.»
«Lei sa che cosa sto cercando di dimostrare, dottore», spiegò Falcón. «Devo andare dal Juez Calderón e dargli una prova conclusiva che nella stanza con il signor Vega c’era qualcun altro, responsabile della sua morte. Se non ci riesco, potrebbe non esserci nessuna inchiesta per omicidio. Ora, se non vado errato, lei pensa, come me e come quelli della scientifica, che probabilmente si è trattato di omicidio.»
«Ma una prova conclusiva della presenza di un’altra persona è più difficile da ottenere», obiettò il Médico Forense.
«C’è qualcosa che potrebbe collegare il signor Vega alla morte della moglie?»
«Non ho trovato niente. Sotto le unghie il signor Vega aveva soltanto il suo tessuto cutaneo, si era afferrato il collo.»
«Niente altro?»
«Qual era il profilo psicologico delle vittime?»
«Lei soffriva di disturbi mentali», disse Falcón. «Non sembra che il marito avesse tendenze suicide, ma ci sono aspetti poco chiari nel suo stato psichico.»
Falcón fece un breve riassunto di quanto gli aveva detto il dottor Rodríguez e di come il signor Vega fosse apparso turbato fin dai primi dell’anno.
«Capisco, la cosa può valere in entrambi i casi», disse il Médico Forense.
«In compenso, la vittima aveva una pistola calibro 9, un sistema di sorveglianza che non usava e vetri antiproiettile.»
«Si aspettava guai.»
«Oppure era semplicemente apprensivo come molti ricchi che abitano vicino al Polígono San Pablo.»
«E il sistema di sicurezza non usato?»
«Anche in questo caso colpa dei nervi. Forse la moglie malata era paranoica, forse si vantava con i vicini dei vetri antiproiettile. Oppure lo stesso Vega voleva scoraggiare gli estranei, senza lasciare traccia delle persone che venivano da lui.»
«Perché era coinvolto in qualcosa di illegale?»
«Un vicino ha visto dei russi alla sua porta, tipi che di sicuro non uscivano dal Bolshoi.»
«Si parla molto di mafia russa di questi tempi, specialmente sulla Costa del Sol, ma non sapevo che avessero già raggiunto Siviglia», osservò il Médico Forense.
«È un brutto modo di morire quello di Vega, vero, dottore?» domandò Falcón.
«Vendetta o punizione, forse un esempio per altri. E la sua vita sessuale?»
«Il suocero dice che era restio a fare il suo dovere di marito, anche… prima che la moglie soffrisse di depressione. Secondo la suocera aveva una relazione che stava andando male, e questo avrebbe spiegato come mai si fosse chiuso in se stesso ancor più del solito, fin dall’inizio dell’anno. C’è qualcos’altro che dovrei sapere?»
«Solo un particolare curioso. Si era sottoposto a un intervento di chirurgia estetica. Niente di eccezionale, aveva solo eliminato le borse sotto gli occhi e si era fatto tirare un po’ la pelle del collo per mettere in risalto il contorno della mandibola.»
«Oggigiorno lo fanno tutti.»
«È vero e la cosa curiosa è proprio questa. Si tratta di un intervento che risale a molto tempo fa, difficile stabilire quanto, ma certamente a più di dieci anni fa.»
9
Giovedì 25 luglio 2002
Al ritorno guidò Falcón, mentre Cristina Ferrera leggeva i risultati delle autopsie. Era mezzogiorno passato, la temperatura sfiorava i 45 gradi. Non c’era nessuno per la strada, e passando sull’asfalto incandescente le auto spingevano via il calore come bulldozer. Una volta in ufficio alla Jefatura, Falcón disse a Cristina Ferrera di lasciare i referti sulla scrivania di Ramírez e fissò una riunione per le sei del pomeriggio.
Il caldo gli aveva tolto l’appetito e a casa riuscì soltanto a mangiare un po’ di gazpacho, di cui Encarnación gli lasciava una scorta quotidiana. Non trovò la forza, con il calore che si insinuava in ogni angolo della casa, di guardare le foto di Jiménez che si era portato dietro. Salì al piano superiore, si spogliò, fece la doccia e crollò sul letto nella camera rinfrescata dall’aria condizionata, il cervello pieno delle immagini della giornata. Si addormentò e sognò, come gli accadeva spesso, di entrare in un gabinetto pubblico pulitissimo, di tirare lo sciacquone e di vedere la tazza riempirsi fino all’orlo di una quantità vomitevole di feci che traboccavano sul pavimento. Si ritrovava bloccato nel gabinetto e doveva arrampicarsi fuori, ma dopo averlo fatto scopriva che anche gli altri gabinetti erano intasati. In preda alla nausea, seguita da un attacco di panico animalesco, si svegliò con i capelli bagnati di sudore e le mente occupata inspiegabilmente dall’immagine di Pablo Ortega, fino a quando non ebbe ricordato il problema dell’attore con la fossa biologica.
Erano le cinque e mezzo del pomeriggio. La doccia gli tolse il sudiciume dai capelli e dalla testa, i pensieri si mossero avanti e indietro sotto il massaggio dell’acqua. Capì perché avesse fatto quel sogno… un’altra indagine, il suo passato e quello di altri, tutto quanto rimescolato insieme dalla tragedia. Ma non era pronto al passaggio successivo della sua mente, che gli diceva di andare a trovare in carcere il figlio di Pablo Ortega, Sebastián. Non era qualcosa che avesse a che vedere con l’inchiesta in corso, era una missione separata. L’idea lo tranquillizzò, qualcosa gli si aprì cigolando nel petto e Falcón respirò meglio.
Portò le fotografie di Jiménez nello studio e tirò fuori quelle di Ortega. In una Pablo sorrideva parlando con due uomini, uno dei quali era nascosto da altra gente in primo piano, mentre l’altro gli era sconosciuto. Con quella foto in mano salì in macchina, posò la fotografia sul sedile a fianco. In ufficio Ramírez stava scrivendo il suo rapporto sui colloqui avuti nella sede della Vega Construcciones e sulla ricerca di Sergei. Falcón gli riferì del passaporto a nome di Emilio Cruz e della chiave.
«Manderò una e-mail all’ambasciata argentina a Madrid, per vedere se sanno qualcosa», disse poi, «e rintraccerò l’ufficio che ha rilasciato il documento di identità a Rafael Vega.»
«Potremo sapere qualcosa prima di sabato?»
«È luglio. Non credo, ma possiamo provare.»
«Nessuna notizia di Sergei?»
«È stato visto nelle due ultime settimane in un bar di Calle Alvar Núñez Cabeza de Vaca, con una straniera che parlava la sua stessa lingua. La donna era già stata vista e il barista pensa che venisse dal Polígono San Pablo. Pensa anche che fosse una prostituta. Ci ha fornito una descrizione dettagliata, se ne stanno occupando Serrano e Baena.»
Falcón ascoltò i messaggi, osservando la fotografia che aveva con sé. Calderón aveva rimandato il loro incontro alla mattina seguente. Falcón chiamò l’Inspector Jefe Alberto Montes del GRUME (Grupo de Menores), responsabile delle indagini sui crimini commessi contro i minori, e propose una chiacchieratina informale. Mentre stava uscendo, arrivò Cristina Ferrera e Falcón le disse di occuparsi delle telefonate in entrata e in uscita dalla casa e dal telefono cellulare di Rafael Vega e poi di aiutare Serrano e Baena nella ricerca della donna vista insieme a Sergei.
«E la chiave che abbiamo trovato insieme al passaporto in casa di Vega?»
«È più importante Sergei a questo punto dell’indagine. Abbiamo bisogno di un testimone. Si occupi anche della chiave, se ha tempo. Cominci dalle banche.»
Mentre si recava all’ufficio di Montes, si fermò al laboratorio e riferì i risultati delle autopsie a Felipe e Jorge, i quali lo ascoltarono con aria cupa. Non avevano niente da aggiungere per quanto riguardava la scena del delitto: sul guanciale non era stata trovata nessuna traccia di sudore o di saliva, l’unica cosa curiosa riguardava il biglietto trovato nella mano di Vega.