«Non mi pare.»
«Il Juez Calderón le ha fatto qualcosa?»
«Non a me», precisò Falcón. «Non posso parlarne per ora.»
«Nemmeno con la psicoterapeuta che vede da oltre un anno?»
«No… non ancora. Non posso essere certo, potrebbe trattarsi di un episodio di follia ormai dimenticato, oppure potrebbe essere stato intenzionale.»
«Un torto a qualcuno?»
«Non si tratta di un torto, esattamente… anche se in un certo senso lo sembra. Posso soltanto assicurarle che non ha niente a che vedere con me.»
La seduta finì poco dopo, ma prima di accompagnare Javier alla porta, Alicia Aguado fece una deviazione verso un armadietto, armeggiò al suo interno e tirò fuori un registratore.
«Non mi dispiacerà riflettere su Sebastián Ortega», gli disse. «L’estate per me è tranquilla. Da quando sono diventata completamente cieca soffro di agorafobia: l’idea di starmene in spiaggia fra centinaia di persone mi mette a disagio. Rimango in città, nonostante il caldo. Registri qui tutto quello che sa e io lo ascolterò.»
Gli porse il registratore e qualche cassetta. Javier la salutò stringendole la mano fredda e bianca, la formalità del loro rapporto non avendo mai permesso altro, a parte un momento di aberrazione da parte sua nei primi tempi della terapia. Ma Alicia Aguado lo attirò a sé e lo baciò su entrambe le guance.
«Buonanotte, Javier» gli disse scendendo le scale. «E ricordi: la cosa importante è che lei è un brav’uomo.»
Falcón lasciò la frescura dello studio e uscì nel caldo della strada, un calore che quasi si poteva toccare. Camminando, fece quello che Alicia gli aveva raccomandato di non fare: pensò alla fotografia di Inés fissata al pannello. Distrattamente attraversò la strada e si trovò di fronte alla vecchia Manifattura tabacchi, ora incorporata nell’università. Aveva superato l’Edificio de los Juzgados, dove aveva parcheggiato la macchina. Attraversò l’Avenida del Cid e tornò indietro passando all’interno del Palacio de Justicia. Qualcuno lo chiamò per nome. Il suono della voce gli fece l’effetto di mani di donna che gli si insinuassero sul petto da dietro. Prima ancora di voltarsi, indovinò dal rumore dei tacchi che avrebbe visto Inés.
«Congratulazioni», le disse, impappinandosi sulla parola.
Lei lo fissò senza capire mentre si scambiavano un bacio di saluto.
«Me lo ha detto ieri Esteban», spiegò Falcón.
Inés si coprì la bocca con la mano per scusarsi della dimenticanza, poi alzò gli occhi al cielo.
«Perdonami, non ci pensavo. Grazie, Javier.»
«Sono molto contento per voi. Non è un po’ tardi per lavorare?» soggiunse.
«Esteban mi ha detto di raggiungerlo qui alle nove e mezzo. Oggi lo hai visto?»
«Ha rimandato la riunione a domani.»
«È sempre qui a quest’ora, non so che cosa abbia potuto…»
«Che hanno detto gli uomini della sicurezza?»
«Che se ne è andato alle sei e non è tornato.»
«Hai provato sul cellulare?»
«È spento. Adesso lo spegne di continuo, c’è troppa gente che lo chiama.»
«Be’… posso darti un passaggio da qualche parte?»
Inés lasciò un messaggio a una guardia e salì in macchina con Falcón. Percorsero la Cristóbal Colón e decisero di fermarsi per una tapa da El Cairo, in Reyes Católicos.
Seduti al banco del bar ordinarono birra e una tapa di peperoni piquillo ripieni di nasello. Falcón le chiese del matrimonio, Inés gli rispose distrattamente, guardando fuori dalla finestra ogni faccia che passava. Falcón sorseggiò la birra e le mormorò qualche parola d’augurio finché lei si girò di colpo e gli afferrò un ginocchio con le dita dalle unghie lunghe e ben curate.
«Stava bene?» gli domandò. «Sai… sul lavoro.»
«Non lo so. Sono con lui su questo caso a Santa Clara, ma solo da ieri.»
«Santa Clara?»
«In fondo all’Avenida de Kansas City.»
«So dov’è Santa Clara», ribatté lei irritata, ma l’irritazione sfumò immediatamente e Inés lo guardò con i suoi grandi occhi castani come faceva quando voleva ottenere qualcosa. «Ha detto… ha detto…»
«Che cosa, Inés?»
«Niente», disse lei, lasciandogli il ginocchio. «Ultimamente sembra un po’ ansioso.»
«Solo perché ha reso la cosa ufficiale: l’annuncio.»
«Che differenza può fare?» domandò Inés, aggrappandosi a ogni sillaba pronunciata da Falcón cercando disperatamente di capire qualcosa della psiche maschile.
«Lo sai… l’impegno totale, senza ripensamenti.»
«Era già impegnato prima.»
«Ora è ufficiale… comunicato al mondo. Può rendere nervoso un uomo quel genere di cose, sai, la fine della giovinezza, niente più vita spensierata. La famiglia, le responsabilità da adulto… roba così.»
«Capisco», disse lei, senza capire. «Vuoi dire che ha dei dubbi?»
«No, no, no que no», protestò Falcón. «Non si tratta di dubbi, è solo apprensione al pensiero del cambiamento. Ha trentasette anni, non è mai stato sposato, è solo una reazione al futuro sconvolgimento emotivo e pratico.»
«Pratico?»
«Non rimarrete nel suo appartamento, no? Vi farete una casa… metterete su famiglia.»
«Esteban ti ha parlato di questo?» Inés lo scrutò in faccia per cercare il minimo segno di tic nervosi.
«Io sono l’ultima persona…»
«Abbiamo sempre detto che avremmo comprato una casa in centro», continuò lei, «una casa grande, come la tua… forse non così immensa e pazzesca, ma in quello stile classico. Sono mesi che cerco una vecchia casa da ristrutturare. E sai cosa mi ha detto Esteban ieri sera?»
«Che ha trovato in un altro quartiere?» domandò Falcón, incapace di arrestare il pensiero che Inés lo avrebbe sposato solo per la casa.
«Ha detto che vuole vivere a Santa Clara!»
Falcón la guardò negli occhi grandi e spaventati ed ebbe l’impressione che qualcosa di simile a un lento naufragio stesse prendendo forma nella sua mente. Le consonanti gli si impigliarono in gola come lische di pesce.
«Proprio così», affermò Inés, raddrizzando le spalle, quasi trionfante, «è l’antitesi di tutto quanto abbiamo sempre voluto.»
Falcón tracannò la birra, ne ordinò un’altra, si ficcò in bocca malamente il peperone.
«Che cosa significa, Javier?»
«Significa», disse Falcón, precipitandosi verso tragiche rivelazioni e deviando all’ultimo istante, «significa che è sconvolto. Quando tutto nella tua vita cambia di colpo… cambi anche tu… ma più lentamente. Lo so. Sono diventato un esperto in queste faccende di cambiamenti.»
Inés annuì, mandando giù le parole e trattenendole nel petto, dove poteva conservarle come cose preziose. Poi i suoi occhi saettarono verso l’ingresso del bar e in un lampo saltò giù dallo sgabello e si lanciò fuori del locale.
«Esteban!» urlò in strada, più forte di qualsiasi pescivendola.
Calderón si fermò di botto, come se lo avessero pugnalato al cuore. Quando si fu voltato Falcón si aspettò di vedere il manico del coltello sporgergli dalle costole, ma ciò che vide, prima che Calderón potesse ricomporsi, fu paura, smarrimento, disprezzo, un’espressione stranamente selvaggia, come di chi si fosse smarrito per giorni tra le montagne. Poi il giudice sorrise, un sorriso assolutamente raggiante, lei gli si avvicinò, lui si avvicinò a lei e si baciarono perdutamente in mezzo alla strada. Una coppia di anziani seduta vicino al vetro annuì con simpatia. Falcón batté nervosamente le palpebre davanti a quello sfoggio di falsità.
Inés trascinò Calderón nel bar e il giudice incespicò nel vedere Falcón sul suo sgabello davanti al banco. I tre si dettero reciprocamente spiegazioni ripetute e del tutto inascoltate, la birra scorse nelle gole, argomenti di attualità rimbalzarono tra loro. Dopo pochi minuti Inés e Calderón uscirono e Falcón osservò il tendine disegnarsi sull’avambraccio di Inés mentre afferrava la camicia del fidanzato. Una tensione disperata. Inés non avrebbe mai lasciato andare quell’uomo.