«Be’, grazie per avermi spiegato come stavano le cose», lo ringraziò Falcón, «mi dispiace di averle portato via del tempo.»
«Non sono sicuro di aver capito su che cosa stia investigando, Javier. Si è parlato del suicidio di Rafael e un momento dopo lei lo fa sembrare un omicidio e adesso si interessa del caso di Sebastián. E la fotografia… deve essere stata scattata anni fa, prima che io mettessi su tutto questo peso.»
«Non c’è data. Posso dirle soltanto che è stata fatta prima del 1998.»
«E come lo sa?»
«Lo so, perché l’uomo con cui lei stava parlando è morto quell’anno.»
«Allora sa chi è?»
Falcón annuì.
«Mi sento come se fossi accusato di qualcosa», disse Ortega, «mentre è solo la mia memoria che è andata in pezzi dopo la faccenda di Sebastián. Non ho mai usato un suggeritore in tutta la mia vita e poi, l’anno scorso, per ben due volte mi sono trovato davanti alla macchina da presa o sul palcoscenico a domandarmi che diavolo ci facessi là. È… no, a lei non può interessare, sono sciocchezze, niente che possa importare a un poliziotto.»
«Mi metta alla prova.»
«È come se la realtà continuasse a intrufolarsi nell’illusione che sto cercando di creare.»
«Sembra plausibile; ha attraversato un periodo difficile.»
«Non mi era mai successo», disse Ortega, «nemmeno quando Gloria mi ha lasciato. Comunque sia, non ha importanza.»
«Il mio lavoro non consiste soltanto nel mettere i criminali dietro le sbarre. Pablo. Noi siamo anche al servizio della gente e questo significa che io cerco anche di essere di aiuto.»
«Ma può aiutarmi anche per quello che sta succedendo qui?» domandò Ortega battendosi la mano sulla fronte.
«Occorre che prima mi dica che cos’è.»
«Sa qualcosa dei sogni? Io faccio questo sogno, che sono in un prato con un vento fresco sulla faccia sudata. Sono in preda a una collera incredibile e mi fanno male le mani: ho delle punture sui palmi e il dorso delle dita escoriato. C’è rumore di traffico e io sento che le mani non mi provocano tanto un dolore fisico, quanto un grande turbamento. Che ne pensa, Javier?»
«È come se avesse appena picchiato qualcuno.»
Ortega lo guardò senza vederlo, profondamente immerso nei suoi pensieri. Falcón disse che doveva andarsene, ma non vi fu nessuna reazione. Arrivato al cancello, si ricordò di aver dimenticato di chiedere di Sergei. Tornò indietro, ma si fermò all’angolo della casa, perché Ortega era in piedi sul prato, le mani levate al cielo. Poi l’attore si lasciò cadere in ginocchio, i cani lo raggiunsero e gli si strusciarono contro le cosce. Ortega li accarezzò, li abbracciò stretti. Singhiozzava. Falcón si ritirò.
Il garage dei Vega, con la Jaguar nuova di zecca, era più pulito dell’alloggio di Sergei, e Falcón capì che non avrebbe mai trovato dell’acido muriatico in prossimità di quella carrozzeria perfetta. Uscì in giardino e arrivo fino al barbecue, pensando che Sergei dovesse avere un ripostiglio per tenere gli attrezzi. Non vide nulla di improvvisato in quella parte del giardino, il barbecue era stato costruito da qualcuno che sapeva come cucinare la carne alla griglia. Dietro il barbecue il verde era folto, quasi tropicale e, girando intorno all’alloggio di Sergei, in quella giungla Falcón scoprì un sentiero che portava a un capanno nascosto dalla vegetazione. Era furioso che non ne fosse stato fatto cenno nel rapporto di Pérez sulla perquisizione del giardino.
Trovò una chiave nel garage e rifece faticosamente il percorso nel caldo soffocante. Il capanno era pieno di sacchi di carbone e del solito armamentario dei barbecue. Sergei teneva gli attrezzi a un’estremità, insieme con piccole quantità di materiali da costruzione. Là, su uno scaffale, si trovavano barattoli di vernice e alcune bottiglie, tra le quali un flacone aperto di acido muriatico, di cui restava un fondo alto un centimetro. Falcón tornò alla macchina per prendere il sacchetto di plastica e infilò la penna nel manico per raccogliere il flacone e metterlo nel sacchetto. Mentre era così impegnato, la luce si oscurò nel capanno.
«Lavora da solo oggi, Inspector Jefe», disse Maddy Krugman, facendolo trasalire.
Era sulla soglia, illuminata da dietro. Falcón riusciva a vedere ogni sua curva e ogni punto cruciale della sua figura attraverso la stoffa trasparente del vestito. Abbassò lo sguardo sui sandali di pelle di zebra. Maddy si appoggiò allo stipite, le braccia conserte.
«Preferisco così, signora Krugman.»
«Lei mi sembra un solitario», disse la donna. «Ragiona, mette insieme i pezzi, ricostruisce il quadro nella sua testa.»
«Mi tiene d’occhio.»
«Mi annoio. Non posso uscire a fare foto con questo caldo, e comunque giù al fiume non c’è nessuno.»
«Suo marito continua a lavorare per la Vega Construcciones?»
«Il signor Vásquez e gli amministratori lo hanno chiamato ieri sera e gli hanno detto di continuare con i progetti. A quanto pare non hanno staccato la spina… per ora. Gradirebbe un caffè, Inspector Jefe?»
Uscirono al sole e la donna lanciò un’occhiata al contenuto del sacchetto. Falcón chiuse a chiave il capanno.
«Possiamo tagliare di qui per andare da me», propose Maddy, precedendolo attraverso un varco nella siepe e nel giardino fino alla villa dei Krugman. Falcón pensava a come introdurre l’argomento Reza Sangari.
Rimase seduto sul divano nella frescura del soggiorno mentre Maddy preparava il caffè. I tacchi bassi dei sandali non facevano quasi rumore sul pavimento di marmo. Perfino quando Madeleine Krugman non era nella stanza, si avvertiva in modo subliminale la sua presenza. Tornata in soggiorno, Maddy versò il caffè e si accomodò all’altra estremità del divano.
«Sa che cosa provo qui da sola tutto il giorno, un giorno dopo l’altro?», disse Maddy. «Mi sento in un limbo. È assurdo che la mia vita sociale si sia incrementata del cento per cento da quando è morto Rafael. Era praticamente il nostro solo ospite, ma ora lei viene qui e ieri ho passato un po’ di tempo con Esteban…»
«Il Juez Calderón?»
«Sì. Un uomo simpatico e molto colto, anche.»
«Quando lo ha visto?»
«L’ho incontrato per caso in città la mattina e ci siamo rivisti più tardi e abbiamo passato la serata insieme», rispose Maddy. «Mi ha portato in qualche locale del centro dove non avrei mai messo piede da sola, sa, quei posti con un migliaio di jamones che gocciolano grasso in quelle specie di vaschette di plastica, appesi al soffitto sulle teste di qualche grassone con i capelli impomatati e il sigaro in bocca, che si aggiusta i pantaloni ogni volta che passa una donna.»
«Che ora era?»
«Non riesce a non fare l’investigatore, eh? Diciamo dalle sei fino alle dieci.»
Accavallò le gambe e la gonna scivolò verso il grembo. Si sfilò il sandalo con un movimento del piede.
«Ho saputo di una sua mostra intitolata ‘Vite minime’», disse Falcón. «Di che trattava?»
«Ah, sì», disse la donna, alzando gli occhi al cielo. «Non mi è mai piaciuto quello stupido titolo, è stata un’idea del mio agente. Vogliono sempre qualcosa di commerciale. Di sopra ho il catalogo, se le interessa.»
Si alzò, sfiorandosi l’orlo del vestito con la punta delle dita.
«Non importa», disse Falcón, che voleva mantenere il discorso al pianterreno. «Volevo solo conoscere l’argomento.»
Maddy si avvicinò alla porta scorrevole e appoggiò le mani al vetro, guardando il giardino. Di nuovo la luce filtrò attraverso la stoffa. Falcón si agitò sul divano. Sembrava tutto calcolato.
«Erano fotografie di gente molto comune scattate sul lavoro o in casa, persone che vivevano una vita modesta in una grande città. Le foto erano appunto immagini di quella vita: la fantasia doveva fare il resto.»