Falcón tornò nel corridoio e controllò le stanze del pianterreno. La sala da pranzo era ultramoderna, il tavolo un ripiano di vetro opaco verde montato su due archi di acciaio inossidabile. Era apparecchiato perfettamente per dieci commensali. Le sedie erano bianche, così come il pavimento, le pareti e le lampade. Pranzare al gelo dell’aria condizionata doveva dare la sensazione di stare dentro un frigorifero, ma senza l’ingombro dei contenitori di burro e di cibi avanzati. Falcón dubitava che quella stanza avesse mai accolto molta gente.
Al confronto il soggiorno sembrava la mente di una persona confusa, ogni superficie ingombra di soprammobili, di ricordi provenienti da ogni parte del mondo. Falcón immaginò vacanze nelle quali Vega fotografava in modo ossessivo servendosi della tecnologia più avanzata mentre la moglie saccheggiava i negozi di souvenir. Al centro del divano un telefono portatile, una scatola piena a metà di cioccolatini e telecomandi per televisione, DVD e satellite. Sul pavimento un paio di ciabattine rosa ornate di piume. Le luci erano spente, così come il televisore.
I gradini che salivano alle camere da letto erano lastre di granito nerissimo. Salendo lentamente Falcón ne esaminò la superficie liscia come vetro. Niente. Il pavimento in cima alle scale era di granito nero con intarsi romboidali in marmo bianco. Si diresse verso quella che intuiva essere la stanza padronale. Nel letto matrimoniale c’era una donna. Un guanciale le era stato premuto sul volto, e aveva le braccia spalancate sul piumino leggero come a chiedere aiuto. Su un polso si vedeva il cinturino sottile di un orologio. L’unico piede visibile aveva uno smalto rosso vivo sulle unghie. Falcón si accostò al letto e tastò il polso mentre osservava i due affossamenti sul cuscino. Anche Lucía Vega era morta.
Le altre tre camere del piano superiore avevano tutte il bagno. Una era vuota, un’altra aveva un letto matrimoniale e la terza era quella di Mario: soffitto dipinto come un cielo notturno, sul letto un vecchio orsacchiotto di peluche senza una zampa.
Falcón riferì al Juez Calderón del secondo cadavere. Il Médico Forense, inginocchiato accanto al corpo di Rafael Vega, stava cercando di aprirgli le dita di una mano.
«Sembra che abbia un foglietto nel pugno destro», spiegò Calderón. «Il cadavere si è raffreddato in fretta con l’aria condizionata e voglio che il biglietto sia recuperato senza che si strappi. Una prima idea, Inspector Jefe?»
«A prima vista, sembrerebbe un patto suicida. Soffoca la moglie e poi beve un acido, anche se questo è un modo lento e orrendo di ammazzarsi.»
«Un patto? Che cosa le fa pensare che si fossero messi d’accordo?»
«Ho solo detto che sembra così. Il fatto che il bambino sia stato mandato a dormire fuori di casa farebbe pensare a un qualche accordo tra i due. Una madre non sopporterebbe il pensiero della morte del proprio figlio.»
«E un padre sì?»
«Dipenderebbe dal motivo della sua angoscia. Se vi fosse la possibilità di uno scandalo finanziario o morale, forse non vorrebbe che il figlio vivesse con quella consapevolezza, il figlio maschio che porta il suo nome, potrebbe pensare di fargli un favore uccidendolo. Ci sono uomini che sterminano la famiglia perché pensano di aver fallito nei suoi confronti e che sia meglio non lasciare vivo nessuno a portare il marchio della vergogna.»
«Però lei ha qualche dubbio», disse Calderón.
«Il suicidio, patto o non patto, raramente è un atto improvvisato, e sulla scena di questo crimine si notano vari elementi di improvvisazione. Primo, la porta non era stata chiusa a chiave. Consuelo Jiménez aveva telefonato per dire che Mario si era addormentato, perciò erano sicuri che non sarebbe tornato e ciò nonostante non hanno chiuso la porta a doppia mandata.»
«Era chiusa però, e questo bastava.»
«Se si ha in mente di fare qualcosa di questo genere, ci si chiude dentro per bene, in modo da essere certissimi che non si verrà interrotti. È una necessità psicologica. I suicidi che fanno sul serio normalmente prendono tutte le precauzioni possibili…»
«Che altro?»
«Il modo in cui tutto è stato lasciato dov’era: il telefono, i cioccolatini, le pantofole. Parrebbe indicare una mancanza di premeditazione.»
«Be’, da parte di lei, certo.»
«Sì, naturalmente.»
«Ma un liquido per sgorgare gli scarichi?», disse Calderón. «Perché scegliere un liquido del genere per suicidarsi?»
«Forse scopriremo che nella bottiglia c’era qualcosa di più potente», suggerì Falcón. «Perché farlo così? Be’, forse quell’uomo voleva punire se stesso… capisce, ripulirsi dai propri peccati. Un altro vantaggio è che si tratta di un modo silenzioso e, a seconda delle altre sostanze che può aver preso, anche irrevocabile.»
«Be’, questo fa pensare a una premeditazione, Inspector Jefe. Perciò in queste morti abbiamo sia elementi di spontaneità sia elementi di premeditazione.»
«Va bene, sì… diciamo che se li avessimo trovati distesi sul letto mano nella mano, con un biglietto appuntato al pigiama di lui, allora non avrei difficoltà a considerarlo suicidio. Ma stando così le cose, preferisco iniziare un’indagine per omicidio, prima di decidere.»
«Forse il biglietto che ha in mano ci illuminerà…» cominciò Calderón. «Ma non è strano mettersi in pigiama prima di… o si tratta di un’altra necessità psicologica? Prepararsi per il grande sonno?»
«Speriamo che abbia acceso le telecamere della sorveglianza e caricato i videoregistratori», disse Falcón, tornando alle cose pratiche. «Dovremmo dare un’occhiata al suo studio.»
Attraversarono l’ingresso e percorsero un corridoio accanto alle scale. Lo studio di Vega era sul lato destro e si affacciava sulla strada. Una poltrona girevole di pelle era dietro la scrivania, un manifesto delle corride dell’ultima Feria de Abril sulla parete alle spalle.
Una scrivania grande, sgombra, di legno chiaro con un telefono e un computer portatile. Sotto la scrivania una cassettiera a rotelle. Lungo la parete dietro la porta quattro schedari neri e in fondo alla stanza l’apparecchiatura di videosorveglianza, con i monitor spenti e le spine staccate, e in ogni registratore una cassetta ancora inutilizzata.
«Non promette un gran bene», osservò Falcón.
Gli schedari erano chiusi a chiave, così come la cassettiera sotto la scrivania. Falcón salì in camera da letto e aprì una cabina armadio, con gli abiti e le camicie di lui sulla destra e quelli di lei, oltre a un gran numero di scarpe (alcune uguali tra loro in modo inquietante) sulla sinistra. Posati su una cassettiera un portafogli, un mazzo di chiavi e qualche spicciolo.
Una chiave del mazzo apriva i cassetti della scrivania. I primi due non contenevano niente di diverso dal solito, ma quando Falcón aprì il terzo, vide qualcosa che sporgeva da sotto una risma di carta. Era una pistola.
«Non ne ho viste molte di queste», disse Falcón, «è una Heckler Koch calibro nove. Chi ce l’ha si aspetta certamente qualche grosso guaio.»
«Se lei avesse un’arma del genere in casa, berrebbe un litro di acido o si farebbe saltare le cervella?»
«Potendo scegliere…»
Sulla soglia comparve l’avvocato, uno sguardo duro negli occhi scuri piantati sulla faccia.
«Non avete il diritto…» cominciò.
«Stiamo indagando su un omicidio, signor Vásquez», lo interruppe subito Falcón. «La signora Vega è di sopra sul letto, morta, è stata soffocata con un cuscino. Lei non ha nessuna idea del motivo per cui il suo cliente volesse tenere una di queste nel suo studio?
Vásquez ebbe un moto di sorpresa nel vedere la pistola.
«Siviglia è una di quelle curiose città dove la gente ricca e privilegiata di Santa Clara è separata dalla popolazione di drogati e di emarginati del Polígono San Pablo solo da un piccolo quartiere, dalla cartiera e dalla Calle de Tesalónica. Presumo che la tenesse per ragioni di sicurezza.»