Ramírez e Falcón percorsero il corridoio in compagnia di una traduttrice russa fatta venire dall’università. Serrano aprì la porta per farli entrare, le presentazioni furono fatte, le due donne sedettero vicine a un lato del tavolo, con gli uomini di fronte. L’interprete accese una sigaretta, Ramírez girò il capo per vedere se vi fosse un inserviente, Serrano aprì la porta.
«Un altro posacenere, Carlos», disse Ramírez.
Falcón spiegò lo scopo del colloquio mentre esaminava il passaporto di Nadia e controllava il visto, valido ancora per sei mesi. Le spalle della ragazza ucraina si rilassarono di qualche micron.
«È iscritta a una scuola di lingue», spiegò Ramírez.
«Non siamo qui per renderle la vita difficile», le disse Falcón. «Abbiamo bisogno del suo aiuto.»
Nella foto del passaporto la ragazza aveva i capelli scuri. La radice era ancora visibile sotto la tintura approssimativa, forse applicata dalla ragazza stessa. Aveva occhi verdi sotto l’ombretto azzurro che però non nascondeva del tutto il fatto che l’occhio sinistro aveva subito di recente una qualche lesione. La pelle era bianca e chiazzata, come se non fosse stata esposta al sole per parecchi mesi. Sulle braccia si vedevano escoriazioni recenti. Falcón sorrise per incoraggiarla e la ragazza ricambiò il sorriso, rivelando che le mancava un canino. Falcón posò la foto di Sergei al centro del tavolo.
«Da che località dell’Ucraina viene?» le domandò.
L’interprete ripeté la domanda parlando vicino all’orecchio della ragazza.
«Lvov», rispose lei, giocherellando con la sigaretta che teneva tra le dita rosse e screpolate.
«Che cosa faceva a Lvov?»
«Ho lavorato in una fabbrica finché non è stata chiusa. Poi non ho fatto niente.»
«Sergei è di Lvov… Lo conosceva?»
«Lvov ha quasi un milione di abitanti.»
«Ma lei lo conosceva», affermò Falcón.
Silenzio. Altro fumo attraverso labbra tremanti.
«Vedo che ha paura», riprese Falcón, «vedo che è stata picchiata da quelli per i quali lavora, probabilmente stanno anche minacciando la sua famiglia. Se lei non vuole, noi non interferiremo, vogliamo soltanto sapere di Sergei, perché lavorava per qualcuno che ora è morto. Sergei non è sospettato di nulla, noi vogliamo parlare con lui, per scoprire se può dirci qualcosa. Da lei vorremmo sapere come ha conosciuto Sergei, quando lo ha visto l’ultima volta e che cosa le ha detto. Da questa stanza non uscirà niente e lei potrà tornare a casa sua quando vuole.»
Non distolse lo sguardo dal viso della ragazza, che doveva certamente aver imparato qualche dura lezione sull’umanità e lo stava fissando come se stesse cercando qualche segnale in lui, un’esitazione, un movimento degli occhi, un tic rivelatore, qualcosa che potesse significare altra sofferenza per lei. Guardò l’orologio, una cosetta da pochi soldi, di plastica, con un grosso fiore per quadrante.
«Ho trentotto minuti per tornare all’appartamento», disse alla fine. «Ho bisogno di un po’ di soldi per non far dire a quella gente dove sono stata.»
«Quanto?»
«Trenta euro mi bastano.»
Falcón tirò fuori un biglietto da venti e uno da dieci e li posò sul tavolo.
«Sergei e io siamo amici, veniamo dallo stesso paese vicino a Lvov. Lui lavorava in un istituto tecnico, insegnava meccanica. Guadagnava ventisette euro al mese», disse la ragazza, abbassando lo sguardo sul denaro che Falcón le aveva dato con tanta facilità. «Io guadagnavo diciassette euro al mese. Non era vita, era una morte lenta. Un giorno Sergei è venuto a trovarmi tutto emozionato. Aveva sentito dire da certi amici che il Portogallo era un buon posto per entrare in Europa e che in Europa avremmo potuto guadagnare ventisette euro al giorno. Andammo all’ambasciata a Varsavia per ottenere i visti e lì abbiamo trovato la mafia. Ci procurarono i visti, organizzarono il viaggio: si pagava in dollari, ottocento a testa. Sapevamo già che a Lisbona la mafia era potente, avevamo sentito dire che ti prelevavano al pullman, ti picchiavano, poi avviavano le donne alla prostituzione e gli uomini a lavorare come schiavi finché non avevano saldato tutto quel debito sconfinato. Così decidemmo di non arrivare fino a Lisbona. Il pullman si fermò a una stazione di servizio fuori Madrid. Nella toilette incontrai una ragazza russa che mi raccomandò di non andare a Lisbona e mi dette una sigaretta. Mi presentò uno spagnolo che disse che mi avrebbe trovato lavoro in un ristorante a Madrid. Gli chiesi se fosse possibile trovare un lavoro anche a Sergei e lui disse che non c’erano problemi, avrebbe potuto lavare i piatti. Pagavano seicento euro al mese. Scendemmo dal pullman.»
La ragazza scrollò le spalle, spense la sigaretta e Ramírez gliene allungò un’altra.
«Non c’era nessun ristorante. Fummo portati in un appartamento dove ci dissero che avremmo potuto restare, poi se ne andarono dicendo che sarebbero tornati la mattina dopo. Più tardi bussarono alla porta e vedemmo tre russi, grandi e grossi. Ci picchiarono e ci portarono via i passaporti. Fui violentata da tutti e tre. Portarono via Sergei e mi chiusero a chiave nell’appartamento. Ogni giorno quegli uomini tornavano e mi violentavano, poi se ne andavano senza aver detto una parola. Dopo tre mesi i russi tornarono con un uomo, russo anche questo. Mi fece spogliare, mi esaminò come se fossi una bestia, poi annuì e se ne andò. Ero appena stata venduta. Mi portarono a Siviglia e mi misero in un appartamento. Per sei mesi mi trattarono malissimo, poi le cose cominciarono ad andare un po’ meglio. Mi fu permesso di uscire dall’appartamento per lavorare in un club. Servivo da bere e… altre cose. Mi restituirono il passaporto, però mi slogarono il dito», disse alzando la mano, «per farmi ricordare… Non ne avrebbero avuto bisogno, ero terrorizzata comunque, troppo spaventata per fuggire — e dove sarei andata senza soldi e ridotta così? Sapevano dove abitava la mia famiglia e mi dissero che cosa avrebbero fatto ai miei se fossi fuggita.»
Chiese dell’acqua. Serrano portò una bottiglia dal frigorifero. La ragazza fumava una sigaretta dietro l’altra. A giudicare dal suo aspetto, non pareva che l’interprete fosse in grado di resistere a lungo al racconto di Nadia.
«Mi danno un po’ di denaro per mangiare e per le sigarette. Si fidano di me, ma basta un solo errore e mi picchiano e mi rinchiudono nell’appartamento», disse, indicando l’occhio. «Questo è per il mio ultimo sbaglio, mi hanno vista parlare con Sergei in un bar. È stata la seconda volta che l’ho visto, ci eravamo incontrati per caso una sera e lui mi ha detto dove lavorava.»
«Quanto tempo fa?»
«Sei settimane fa. Mi hanno picchiata e rinchiusa per due settimane.»
«Ma lo ha rivisto ugualmente?»
«Due volte. Due settimane dopo che mi avevano lasciato uscire di nuovo, ho trovato la casa dove lavorava. Abbiamo parlato, mi ha raccontato che cosa gli era successo, il lavoro che aveva fatto nei cantieri, un lavoro pericoloso dove si rischiava la pelle. Mi ha detto che odiava l’Europa e voleva soltanto ritornare a Lvov.»
«Le ha detto per chi lavorava?»
«Sì, ma non ricordo il nome, non era importante per me. So che era il proprietario dei cantieri dove aveva lavorato.»
«Quando è stata la seconda volta che l’ha visto?»
«Mercoledì mattina è venuto all’appartamento e mi ha detto di prendere le mie cose… che ce ne saremmo andati. Mi ha detto che l’uomo per cui lavorava era morto, steso sul pavimento della cucina e che doveva scappare.»
«Perché doveva scappare?»
«Ha detto che non voleva tornare al cantiere, che bisognava sbrigarsi perché sarebbe arrivata la polizia.»