«Aveva del denaro?»
«Ha detto che ne aveva a sufficienza. Non so quanto.»
La ragazza batté le palpebre, cercò di deglutire senza riuscirci, sorseggiò l’acqua. Ramírez le offrì un’altra sigaretta.
«Lei non l’ha seguito?»
«Non ce l’ho fatta, avevo troppa paura. Mi ha salutato e se ne è andato.»
«Riesce a ricordare esattamente le sue parole quando le ha detto che il suo datore di lavoro era morto?»
La ragazza si nascose la faccia tra le mani, premendosi la punta delle dita sulla fronte.
«Ha detto solo che era morto.»
«Ha detto che era stato ammazzato?»
«No… che era morto, solo così.»
«E dopo quella volta è venuto qualcuno a trovarla per chiederle di Sergei?» domandò Falcón.
La ragazza indicò le escoriazioni alle braccia.
«Sapevano che Sergei sarebbe venuto da me. Mi hanno immobilizzata e mi hanno fatto delle cose, ma non ho potuto dire nulla, sapevo soltanto che se ne era andato.»
Guardò l’orologio, innervosita.
«Che cosa le hanno chiesto?»
«Volevano sapere perché Sergei era scappato, cosa aveva visto, e io ho detto che aveva soltanto visto un uomo morto sul pavimento. E questo è quanto», concluse. «Ora devo andare.»
Falcón chiamò Serrano, che però se n’era già andato, sostituito da Cristina Ferrera. Le disse che aveva ventitré minuti per riaccompagnare la ragazza al bar in Calle Alvar Núñez Cabeza de Vaca. Ramírez le dette il suo pacchetto di sigarette. Lei prese i soldi, se li infilò nella cintura e uscì.
L’interprete impiegò un tempo eccessivo a scrivere la ricevuta, come se l’ultimo quarto d’ora si fosse portato via una parte del senso della sua vita. Ramírez le ricordò la clausola di riservatezza che aveva firmato. L’interprete uscì. Ramírez fumò in silenzio, a cavalcioni sulla sedia.
«È il nostro lavoro ascoltare storie così e non fare nulla», disse. «Siamo pagati per questo.»
«Vada a parlare con Alberto Montes», disse Falcón. «Non sa quante ne ha ascoltate di queste storie.»
«Non so come sia andato il suo incontro con Calderón stamani», riprese Ramírez, «ma ora una cosa è certa. La mafia russa è decisamente coinvolta nel caso.»
Spense la sigaretta nel brutto portacenere di stagno. Tornarono in ufficio, Ramírez faceva tintinnare le chiavi della macchina.
«Manderò qualcuno alla stazione dei pullman oggi pomeriggio, farò controllare l’aeroporto, manderò la foto di Sergei ai porti e una e-mail alla Policía Judiciária a Lisbona», disse poi, avviandosi a fare colazione.
Falcón rimase alla finestra, vide Ramírez comparire in basso e percorrere la lunghezza dell’edificio della Jefatura fino alla macchina. Nel palazzo di uffici adiacente, un uomo, in piedi davanti alla sua finestra, osservava la stessa scena priva di interesse: era l’Inspector Jefe Alberto Montes. Il cellulare di Falcón vibrò. Isabel Cano voleva parlargli nel suo ufficio verso le nove di sera. Avrebbe fatto del suo meglio, rispose Falcón.
Montes aprì la finestra e si affacciò sul parcheggio, due piani più in basso. Falcón ricevette un’altra telefonata: Consuelo Jiménez lo invitava a cena per quella sera a Santa Clara. Falcón disse di sì distrattamente, affascinato com’era da Montes, il quale si stava ora sporgendo fuori, con i gomiti sul davanzale. Con 45 gradi all’ombra nessuno apriva le finestre di un ufficio con l’aria condizionata. Montes girò la testa, si ritirò e chiuse la finestra.
Falcón andò a casa, il caldo e il racconto di Nadia gli avevano tolto l’appetito, ma riuscì ugualmente a mandare giù due scodelle di gazpacho freddo e un panino al chorizo. Parlò con Encarnación per scoprire se avesse fatto entrare qualcuno in casa il giorno prima: no, non aveva fatto entrare nessuno, però la mattina aveva lasciato il portone aperto per un’ora in modo da far circolare l’aria. Falcón salì in camera, si buttò sul letto e si appisolò, un dormiveglia inquieto a causa di una ripetizione inquietante dei colloqui del giorno, culminanti nella visione di una cella dai muri coperti di deboli impronte insanguinate di mani umane. Si trascinò nella doccia per lavare via l’agghiacciante senso di terrore lasciato da quell’ultima immagine. L’acqua gli scrosciò tra i capelli e sulle labbra e all’improvviso nella mente di Falcón balenò un pensiero: era venuto il momento di smettere di fare il monaco investigatore e di immergersi nella vita.
Mentre guidava alla volta della Jefatura ricevette una telefonata da Alicia Aguado, che aveva già ascoltato la registrazione del fascicolo di Sebastián Ortega. Desiderava parlare con il ragazzo, ammesso che Pablo Ortega fosse d’accordo e le autorità del carcere disponibili.
Falcón le riferì la conversazione avuta con Pablo Ortega quella mattina, le disse come l’attore fosse riluttante a permettere un colloquio che avrebbe potuto far peggiorare le già precarie condizioni psicologiche di Sebastián.
«Be’, deve esserci per forza qualcosa tra quei due», disse Alicia, «proprio come tra Sebastián e sua madre, che lo aveva abbandonato due volte, con il divorzio e con la morte. Sono sicura che Pablo Ortega sa che suo figlio è disposto a parlare con noi, finiranno entrambi sul lettino del terapeuta. L’espressione che ha usato, ‘smuovere certe cose’, non si riferisce soltanto alla mente del figlio e questo lo mette a disagio. Forse dovrei parlargli, probabilmente soffre di una certa dose di paranoia da celebrità e non desidera che si cominci a frugare nei suoi pensieri.»
«Sarò da quelle parti stasera, farò un salto da lui e gli parlerò», disse Falcón.
«Domattina sono libera, se volesse avere un incontro informale.»
Dal parcheggio della Jefatura si capiva che gli uffici del Grupo de Homicidios erano affollati, tutti stavano facendo rapporto dopo una lunga settimana sulle strade assolate. Mentre si avviava all’ingresso posteriore, alzò gli occhi verso l’ufficio di Montes e lo vide in piedi davanti alla finestra, il ventre prominente sotto la camicia bianca, la cravatta allentata. Falcón lo salutò con la mano. Montes non rispose.
Il chiasso proveniente dal suo ufficio aveva il tono pieno di aspettativa tipico del fine settimana, dell’agosto ormai alle porte e delle ferie. La squadra stava per perdere Pérez, Baena e Serrano per due settimane, il che significava molte scarpinate in più per i tre che sarebbero rimasti. Si aspettava di trovarli pronti, in pantaloni corti e con una birra gelata in mano, invece stavano fumando e chiacchierando, seduti sul bordo delle scrivanie. Falcón si fermò sulla soglia, sorridendo e annuendo.
«Inspector Jefe!» lo salutò Baena col tono di chi ha almeno tre birre di vantaggio.
Pérez e Serrano lo salutarono calorosamente: Falcón avrebbe dovuto aspettare il ritorno dalle ferie per fustigare a dovere Pérez a proposito della perquisizione nel giardino dei Vega.
«E così siamo in vacanza», disse.
«Abbiamo finito i rapporti», annunciò Pérez. «Abbiamo passato il pomeriggio alla stazione dei pullman e a Santa Justa. Carlos è perfino andato all’aeroporto, per farle un regalo prima di partire.»
«Niente Sergei?»
«No, più in là della ragazza non c’è modo di andare», rispose Serrano.
«Quel tizio ha deciso di scomparire», disse Baena. «Lo farei anch’io, se avessi la mafia russa alle costole.»
«Nessuna fortuna con gli abitanti di Santa Clara?»
«Non c’era quasi nessuno», rispose Pérez, «Cristina ha telefonato alle compagnie di vigilanza privata: hanno confermato che la maggior parte della gente è in vacanza. Quelli che abbiamo interrogato non avevano visto nulla.»
«Siete riusciti a cominciare le ricerche sulla chiave che abbiamo trovato nel congelatore di Vega?»
«Non ancora. Quando ho lasciato Nadia, le banche erano già chiuse.»