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«Okay. Cominciate a lavorarci lunedì mattina», disse Falcón. «Che mi dite della carta di identità intestata a Rafael Vega?»

«Ancora nulla, ma oggi Cristina e io abbiamo avuto una conversazione interessante alla Vega Construcciones», rispose Ramírez, «con il ‘ragazzo d’oro’, il contabile. Era stato lui a far installare il sistema informatico e sta dando un’occhiata più approfondita a qualche progetto.»

«Che cosa rappresenta il ragazzo d’oro per la Vega Construcciones?» domandò Falcón. «È solo Francisco Dourado, contabile, o qualcosa di più?»

«Lui pensa che a quest’ora dovrebbe essere direttore finanziario, ma non lo è. Rafael Vega non era disposto a cedere quel settore. O meglio, non aveva piacere che altri sapessero troppo dei suoi affari.»

«Perciò è solo il contabile.»

«Esattamente. Ma dalla morte di Vega ha avuto libero accesso ai dati. Avrebbe potuto averlo anche prima, ma aveva troppa paura di essere scoperto. Come ho detto, conosce il sistema informatico come le sue tasche e Vásquez non ne sa abbastanza per poterlo fermare.»

«E allora che cosa stiamo cercando? Abbiamo qualche nome per cominciare?»

«Vladimir Ivanov e Mikhail Zelenov», rispose Cristina Ferrera, porgendogli due foto e il profilo dei russi. «Sono appena arrivati dall’Interpol.»

Vladimir Ivanov (Vlado) aveva un tatuaggio sulla spalla destra, capelli biondi e occhi celesti e una cicatrice sotto la mandibola sul lato destro della faccia. Mikhail Zelenov (Mikhas) era bruno e grasso (132 chili) e aveva occhi verdi ridotti a semplici fessure sopra le guance paffute. Le loro imprese criminali coprivano l’intero spettro delle attività della mafia: prostituzione, tratta di persone, gioco d’azzardo, frodi in rete e riciclaggio di denaro sporco. Appartenevano entrambi a una delle cosche mafiose più potenti, la Solntsevskaya, che contava più di cinquemila membri. La sfera d’azione era la penisola iberica.

«Nei progetti immobiliari nei quali sono coinvolti quei due la contabilità era doppia», spiegò Ramírez, «una preparata da Dourado sulla base dei dati che Vega gli comunicava, e un’altra, quella vera, tenuta dallo stesso Vega.»

«Il riciclaggio del denaro è arrivato nell’edilizia di Siviglia», commentò Falcón.

«I russi stanno finanziando praticamente tutto quanto, forniscono manodopera e materiali, mentre la Vega Construcciones mette gli architetti, gli ingegneri e la gestione della manodopera sui cantieri.»

«E chi è il proprietario dell’edificio e che cosa ci guadagnava Rafael Vega?»

«I dati precisi sulla proprietà li ha Vásquez», rispose Ramírez, «di tutti gli atti legali e dei contratti si occupava lui. Finora non ci siamo mossi nei suoi riguardi, pensavo che prima avremmo dovuto parlarne. Per il momento sappiamo soltanto che si tratta di un progetto in cui i russi mettono i soldi e Vega le competenze… Bisogna che in qualche modo le due cose si compensino.»

«Be’, Vega fornisce il contenitore per far funzionare l’intera cosa», fece notare Falcón, «e questo è fondamentale. Ma dobbiamo fissare un appuntamento con Vásquez per domani. Con noi due.»

«E io?» si fece avanti Cristina Ferrera. «Ero coinvolta anche in questa parte dell’indagine.»

«Lo so e sono certo che ha lavorato bene», disse Falcón, «ma occorre che Vásquez senta tutto il peso del grado in questo caso. È anche possibile che ci occorra un mandato. Sentirò il Juez Calderón.»

«E io allora che cosa faccio?» domandò Cristina Ferrera.

«Da stasera perdiamo tre uomini», le ricordò Falcón. «Da domani mattina saremo tutti nella fanteria.»

«Ma sarò io l’unica veramente appiedata.»

«Dobbiamo trovare Sergei. Ha un vantaggio su di noi di sessanta ore ormai, il che significa che probabilmente l’abbiamo perso, ma al momento è lui il nostro unico possibile testimone. Bisogna fare un ultimo tentativo per bloccargli la fuga. Chiederò al Juez Calderón se possiamo dare la sua foto alla stampa.»

Falcón congedò la squadra, dicendo che avrebbe offerto una birra a tutti al bar La Jota. Gli uomini uscirono uno alla volta. Falcón trattenne Cristina Ferrera.

«Mi è appena venuta un’altra idea», le disse. «Lei si è intesa bene con il signor Cabello. Voglio che torni da lui stasera, perché domattina José Luis e io dobbiamo andare da Vásquez già in possesso delle informazioni. Voglio che si faccia dire quali proprietà aveva venduto a Rafael Vega e, per quelle in posizione strategica, quali progetti vi sono stati realizzati.»

Falcón l’accompagnò in macchina al bar La Jota e pagò da bere. Provò a telefonare a Calderón. Non rispondeva. Il sorvegliante gli disse che il magistrato era uscito alle sette e che Inés non si era vista. Falcón chiamò Pablo Ortega e gli disse che sarebbe passato un attimo da lui, se possibile, per mostrargli alcune fotografie.

«Lei e le sue fotografie», disse Ortega, irritato. «Purché sia una cosa veloce…»

Lo studio di Isabel Cano era aperto, ma vuoto. Falcón bussò sulla scrivania e dalla sua stanza Isabel gli gridò di entrare. Stava fumando stravaccata in poltrona, la testa gettata all’indietro così che i capelli si spargevano sullo schienale di pelle nera. Gli sorrise senza girare la testa.

«Grazie a Dio esistono i weekend», disse. «Hai ritrovato il ben dell’intelletto?»

«Se mai, l’idea si è consolidata nella mia mente.»

«Voi sbirri!» disse Isabel Cano con una smorfia al pensiero del loro scarso comprendonio.

«Conduciamo una vita molto protetta.»

«Non significa che dobbiate essere stupidi per forza», affermò Isabel. «Per favore, non farmi capitolare quando con Manuela ho appena cominciato. Nuocerebbe alla mia immagine.»

«Posso sedermi?»

Con le dita che stringevano la sigaretta gli fece un cenno vago in direzione della sedia. A Falcón Isabel era simpatica, ma qualche volta poteva essere irritante: anche gli argomenti più delicati venivano sbattuti sul tavolo e sfilettati a mo’ di pesce.

«Tu sai quello che ho passato, Isabel», le disse.

«In realtà non lo so», rispose lei, lasciandolo sorpreso. «Posso solo immaginarlo.»

«Be’, è sufficiente. Il fatto è che mi sento come se avessi perso tutto, tutte le cose che mi rendevano un essere umano sono state sconvolte. Si ha bisogno di una vita strutturata che dia un senso di stabilità, ma io ho soltanto i ricordi, e i ricordi sono inaffidabili. Però ho un fratello e una sorella. Paco è una brava persona che agirà sempre bene. Manuela è complicata per via di un mucchio di ragioni, che però, in fondo, si riducono al fatto che non ha ricevuto da Francisco l’affetto che voleva.»

«Non sono dispiaciuta per lei e non dovresti esserlo nemmeno tu», obiettò Isabel.

«Ma pur conoscendo Manuela, la sua avarizia, la sua possessività, la sua avidità, ho bisogno di lei come sorella. Ho bisogno di sentirmi chiamare hermanito, fratellino. È sentimentale, illogico e inconcepibile per la tua mentalità avvocatesca… ma è così.»

Cigolio della poltrona in pelle di Isabel. Ronzio dell’aria condizionata. Silenzio della città.

«E credi che sarà così se le cederai la casa?»

«Arrivando a un accordo sulla casa, dove io non voglio più vivere, avrò una possibilità. Se non lo farò, dovrò sostenere l’urto del suo rancore.»

«Tu forse pensi di avere bisogno di lei, ma lei sa di non avere bisogno di te. Di te può fare a meno, perché non sei più un fratello a pieno titolo, sei soltanto un ostacolo. Le persone come Manuela, quando si dà loro qualcosa, vogliono sempre di più. Sono incapaci di amare, il tuo regalo non ti darà quello desideri tanto, ma creerà risentimento e giustificherà il suo rancore.»

Ogni frase fu come un ceffone sulla faccia di Falcón, quasi Isabel stesse schiaffeggiando una persona in preda a un attacco isterico per riportarla alla realtà.