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«Probabilmente hai ragione», convenne Falcón, scosso da tanta brutalità, «ma la mia natura impone che io corra questo rischio, sperando che tu sia in errore.»

Isabel Cano alzò le mani in segno di resa e disse che avrebbe buttato giù una bozza di lettera e gliela avrebbe fatta leggere. Falcón propose di andare da El Cairo per una tapa e un bicchiere, ma Isabel rifiutò.

«Ti offrirei da bere qui, ma non ho niente», gli disse.

«Andiamo da El Cairo, allora», insistette Falcón.

«Non voglio che quello di cui parleremo ora abbia la possibilità di venire ascoltato e ripetuto.»

«Perché? Dobbiamo parlare di qualche altro argomento?»

«Della persona che mi hai nominato stamani.»

«Esteban Calderón», disse Falcón, rimettendosi a sedere.

«Me ne hai parlato perché sta per sposare Inés?»

«Hanno dato l’annuncio mercoledì.»

«Ricordi chi si era occupato del tuo divorzio da Inés?»

«Tu.»

«Allora perché le vicende di Esteban ti riguardano?»

«Sono preoccupato… per Inés.»

«Credi che Inés sia una specie di innocentina che ha bisogno di protezione? Perché io posso dirti che non lo è. Questa casa che sei tanto ansioso di regalare a Manuela… ho dovuto lottare con le unghie e coi denti per impedire a Inés di pretenderne metà. Tu non devi preoccuparti per lei. Sa tutto quello che c’è da sapere su Esteban Calderón, posso assicurartelo.»

Falcón annuì mentre piccoli mondi, fino a quel momento chiusi per lui, si spalancarono.

«Stamani hai detto che Esteban va a caccia di donne. Da che cosa è ossessionato?»

«Dalla diversità. Lui non lo sa ancora», disse Isabel, «ma è questo che ha sempre cercato.»

«E che cosa sarebbe questa diversità

«Una donna a cui non sappia leggere dentro e di cui non comprenda i pensieri. Le donne si sono sempre buttate addosso a Esteban, in genere donne della sua stessa professione, tutte con una mentalità avvocatesca. Lui sa come sono fatte non appena le vede entrare in una stanza. Le corteggia sperando che non siano come sembrano, poi scopre che sono come le altre e si annoia. La caccia ricomincia. Quell’uomo è condannato al movimento incessante di uno squalo.»

Falcón uscì dalla città che andava facendosi buia, il mondo reale violentato dal caldo torrido sembrava molto distante mentre le mani si spostavano automaticamente dalla leva del cambio al volante nell’aria condizionata dell’abitacolo.

I lampioni proiettavano strisce d’ombra sul finestrino fra gli oleandri dell’Avenida de Kansas City; la luce dei neon era una promessa nel buio, e le palme sembravano sorreggere il cielo notturno. Nulla di tutto questo gli interessava, se non il rosso e il verde dei semafori, viveva rinchiuso in se stesso, mentre il suo replicante lo conduceva a Santa Clara. Le parole di Isabel su Calderón e Inés gli scorrevano nella mente come scritte luminose. Falcón sapeva di aver avuto un momento di follia, ma ora si stava confrontando con la straordinaria pazzia della gente perfettamente sana che lo circondava.

L’unica cosa di cui non aveva parlato con Isabel era il breve sguardo che gli aveva permesso di intuire quanta pena le causasse sentire il nome di Calderón. Falcón si rese conto che quella pena non aveva niente a che vedere con il giudice, che era ormai insignificante nei pensieri di Isabel. Era affiorato il ricordo del suo tradimento di moglie e di madre pronta a compromettere la vita del marito e della famiglia. Ciò che gli aveva mostrato era il rimpianto disperato associato a quel ricordo.

Dovette fermarsi in Avenida de Kansas City sotto il neon incombente di La Casera per prendere una telefonata di Cristina Ferrera, che aveva parlato con il signor Cabello. Falcón spiegò la pianta della città e segnò i lotti di terreni che Cabello aveva venduto a Vega e i due importanti progetti immobiliari resi possibili da quella vendita. Prima che riattaccasse, Falcón le disse di tenere d’occhio Nadia.

Solo dopo quella telefonata cominciò a domandarsi perché mai stesse andando a cena da Consuelo.

14

Venerdì 26 luglio 2002

Fermandosi davanti alla casa di Pablo Ortega si ricordò di Montes alla finestra. Avrebbe dovuto domandargli qualcosa sui russi. Chiamò la Jefatura e riuscì a farsi dare il numero del cellulare di Montes.

Montes rispose al telefono. Dal chiasso sullo sfondo doveva trovarsi in un bar e il primo scambio di battute fece capire a Falcón che Montes era ubriaco fradicio.

«Sono Javier Falcón del Grupo de Homicidios», disse, «ci siamo visti ieri…»

«Davvero?»

«Nel suo ufficio. Abbiamo parlato di Eduardo Carvajal e di Sebastián Ortega.»

«Non la sento!»

Musica e voci infuriavano.

«Piantatela con questo baccano del cazzo!» ruggì Montes completamente inascoltato. «Momentito.»

Rumore di traffico. Un suono di clacson.

«Mi sente, Inspector Jefe?» domandò Falcón.

«Chi parla?»

Falcón ricominciò da capo e Montes si scusò profusamente: ora ricordava tutto.

«Abbiamo parlato anche di mafia russa.»

«Non mi pare.»

«Mi ha spiegato la questione della tratta…»

«Ah, sì, sì, la tratta…»

«Avrei una domanda da farle. Ci sono due russi coinvolti nelle mie indagini sulla morte del costruttore, Rafael Vega… ricorda?»

Silenzio. Falcón gridò il nome di Montes.

«Sto aspettando la domanda», disse Montes.

«I nomi di Vladimir Ivanov e di Mikhail Zelenov le dicono niente?»

Un respiro profondo.

«Mi ha sentito?» domandò Falcón.

«L’ho sentita. Non mi dicono niente, ma la mia memoria non è al suo meglio, ho bevuto un paio di birre, capisce, e stasera non sono quel che si dice in forma.»

«Ne parleremo lunedì», disse Falcón e interruppe la comunicazione.

Aveva la netta sensazione di girare in tondo, come un rapace trasportato dalle correnti ascensionali, mentre giù, sulla terra, gli sfuggivano forse cose interessanti. Scese dalla macchina, si appoggiò al tettuccio, battendosi il cellulare sulla fronte. Era normale per Montes, un uomo sposato, ubriacarsi il venerdì sera in un bar affollato, forse da solo? C’era stata davvero una reazione ambigua ai due nomi? Era parso più ubriaco alla fine della conversazione che al principio?

Ortega lo fece entrare nel cortile puzzolente, regno delle mosche. Non era irritato come era parso al telefono, avendo raggiunto lo stadio della sbronza affabile. Indossava una voluminosa camicia bianca fuori dai pantaloni corti di colore blu. Offrì da bere a Falcón. Egli stesso aveva in mano un bicchierone di vino rosso.

«Torre Muga», disse. «Buonissimo. Ne vuole?»

«Preferirei una birra.»

«Con qualche gamberetto? Del prosciutto… Ibérico de bellota? L’ho comprato oggi al Corte Inglés.»

Ortega andò in cucina e tornò perfettamente equipaggiato.

«Mi dispiace di essere stato scortese al telefono», si scusò.

«Non dovrei disturbarla con queste faccende al venerdì sera.»

«Esco solo il sabato e la domenica, quando lavoro», disse Ortega, reso del tutto mansueto dall’eccellenza del Torre Muga. «Sono un pessimo spettatore, riconosco tutte le tecniche, non mi immergo mai nella rappresentazione. Preferisco leggere. Sto divagando, mi scusi, questo è il secondo bicchiere e, come può vedere, è un bicchiere notevole. Devo cercare un sigaro. Ha letto il libro di… mi verrà in mente.»

Nonostante il caos, trovò la scatola di sigari.

«Cohiba», disse. «Ho un amico che va a Cuba regolarmente.»

«No, grazie.»

«Non offro spesso i miei Cohiba.»

«Non fumo.»

«Ne prenda uno per un amico», insistette Ortega, «sono sicuro che anche i poliziotti hanno degli amici. Purché non lo dia a quel cabrón del Juez.»