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«Non è un mio amico», lo rassicurò Falcón.

Ortega gli fece scivolare un sigaro nel taschino.

«Mi fa piacere saperlo», disse, scostandosi. «Un cuore così bianco. È questo il libro. L’autore è Javier Marías. L’ha letto?»

«Un po’ di tempo fa.»

«Non so come ho fatto a dimenticare il titolo. È tratto dal Macbeth, naturalmente. Dopo aver ucciso il re, Macbeth torna con i pugnali insanguinati che avrebbe dovuto lasciare negli alloggi della servitù. Sua moglie è furiosa e gli ordina di tornare indietro. Macbeth rifiuta e deve farlo lei. Al suo ritorno, gli dice:

Le mie mani hanno lo stesso colore delle tue, ma ho vergogna di avere un cuore così bianco.

«A quel punto la sua vergogna è solo un colore e non una macchia, si vergogna della propria innocenza nella cosa, vuole condividere la colpa di lui. È un momento magnifico, perché, ovviamente, al quinto atto sarà: ‘Via, macchia dannata’ e ‘tutti i profumi d’Arabia non addolciranno questa piccola mano’. Perché le sto dicendo questo, Javier?»

«Non ne ho idea, Pablo.»

Ortega bevve due lunghe sorsate e il vino gli gocciolò dagli angoli della bocca, facendo comparire macchie rosse sulla camicia bianca.

«Ah!» esclamò, abbassando lo sguardo su se stesso. «Sa cos’è questa? È una scena da film, una cosa che succede soltanto al cinema, mai nella vita reale. Come in… oh, via, dev’essere almeno in un centinaio di film… Ora non riesco a ricordare.»

«Il cacciatore.»

«Il cacciatore?»

«Una coppia si sposa prima che il marito vada in guerra in Vietnam, bevono da una doppia coppa e il vino si versa sull’abito da sposa. Un presagio…»

«Sì, sì! Un presagio terribile», disse Ortega. «L’imbarazzo al ricevimento di nozze. La candeggina nel bucato. Cose tremende, tremende.»

«Posso mostrarle queste fotografie?»

«Prima che io perda del tutto il collegamento visione-parola, vuole dire?»

«Be’… sì», ammise Falcón.

Ortega scoppiò in una risataccia esagerata.

«Lei mi è simpatico, Javier, molto simpatico. Non è che siano in molti a piacermi», disse Ortega, fissando il prato buio, la piscina senza illuminazione. «Non mi piace… nessuno, in effetti. Ho sempre trovato tutti quelli con i quali ho avuto a che fare nella mia vita… carenti. Pensa che questo succeda alle persone famose?»

«La fama attira un certo tipo di persone.»

«Sicofanti ossequiosi, deferenti e adulatori.»

«Francisco Falcón li odiava, gli ricordavano la sua fraudolenza, gli ricordavano come l’unica cosa che desiderasse più della fama fosse il vero talento.»

«Noi vogliamo essere amati per quello che siamo, non per quello che fingiamo di essere… O, nel mio caso, non per tutti i personaggi che ho finto di essere», osservò Ortega, sempre più drammatico. «Mi domando se al momento della mia morte io non cadrò a terra come in un attacco della sindrome di Tourette e tutti i personaggi che ho interpretato usciranno da me in un brusio compresso fino al silenzio, lasciando soltanto un guscio vuoto che il vento farà volare qua e là.»

«Non credo, Pablo», disse Falcón in tono scherzoso, «ha da perdere qualche chilo prima di diventare un guscio.»

«Io sono soltanto una serie di strati sovrapposti», continuò Ortega, senza ascoltarlo. «Ricordo ciò che mi diceva Francisco: ‘La verità di una cipolla, Pablo, è il nulla. Si sfoglia l’ultima buccia e si trova… il niente.’»

«Be’, Francisco certamente conosceva le cipolle», disse Falcón. «Gli esseri umani sono un po’ più complicati. Li si sbuccia…»

«E che cosa si trova?» lo interruppe Ortega, sporgendosi verso Falcón, in attesa ansiosa.

«Che a definirci è ciò che nascondiamo agli altri.»

«Mio Dio, Javier!», esclamò Ortega, ingurgitando un’abbondante quantità di Muga. «Dovrebbe assaggiare questo vino, sa. È veramente molto, molto buono.»

«Le fotografie, Pablo.»

«Sì, facciamo presto e non pensiamoci più.»

«Quando mi ha detto di aver visto due russi entrare in casa del signor Vega la Noche de Reyes erano forse questi?»

Ortega prese la foto e andò alla ricerca degli occhiali.

«Non ho visto i suoi cani stasera», osservò Falcón.

«Oh, i due carlini stanno dormendo, acciambellati nel loro odore canino. Una bella vita… la vita da cani», rispose Ortega. «Non le ho mai mostrato la mia collezione, vero?»

«Un’altra volta.»

«Io non sono definito da ciò che nascondo, ma da ciò che mostro agli altri», riprese Ortega, con un gesto ampio e lento del braccio a indicare le sue opere d’arte sparse sui tavoli e appoggiate alle pareti. «Sa qual è la cosa peggiore da dire a un collezionista?»

«Che non ci piace un pezzo?»

«No… che ci piace un pezzo particolare. Io ho un disegno di Picasso. Non è niente di speciale, ma lo si riconosce subito. Io divido le persone alle quali mostro la collezione in due gruppi, quelli che si avvicinano al Picasso dicendo: ‘Ah, questo mi piace’», e quelli che si rendono conto che una collezione è un tutto. Ecco fatto, Javier, le ho risparmiato un certo imbarazzo.»

«Non dimenticherò di dirle quanto mi piaccia il Picasso.»

Con gli occhiali in mano, Ortega alzò le braccia ridendo fragorosamente, esultante come un tifoso dopo una vittoria importante. Poi li inforcò quasi con cautela, nemmeno fossero una trappola delicata e pericolosa che avesse teso per se stesso.

«La gente che gravita intorno al Picasso», riprese Ortega, «è quella attirata dalla celebrità. Non vede niente altro.»

«Ha mai mostrato la sua collezione a qualcuno che l’ha vista come un tutto e l’ha trovata…»

«Carente? Nessuno ha mai avuto il fegato di dirmelo in faccia. Ma so che qualcuno c’è stato.»

«Forse significa che lei ha avuto il fegato di esprimersi del tutto attraverso la collezione, il bello e il brutto. Ognuno di noi ha qualcosa di cui vergognarsi.»

«Deve vederla, Javier», disse Ortega con foga. «La collezione dell’attore.»

Ortega confermò che i due uomini delle foto erano quelli che aveva visto entrare nella casa dei Vega a gennaio, poi gettò le foto a Falcón e si riempì il bicchiere, accendendosi finalmente il Cohiba. Sulla camicia le macchie di vino si mescolavano con il sudore. Si tolse di scatto gli occhiali.

«Ricorda la nostra conversazione di stamani su Sebastián?» domandò Falcón. «Ci ha pensato su?»

«Sì, ho pensato alla nostra conversazione.»

«La psicologa di cui le ho parlato, Alicia Aguado, è una persona speciale.»

«In che senso?»

«Prima di tutto è cieca», disse Falcón. E spiegò a Ortega la faccenda del polso. «Le ho detto della sua preoccupazione per Sebastián e ha pensato che sarebbe stata una buona idea parlare anche con lei, ma si rende conto che la gente famosa non ama le intrusioni.»

«La faccia venire», disse Ortega, amabile e seducente. «Più siamo meglio stiamo.»

«Va bene domani?»

«Per il caffè. Alle undici. E poi, dopo che l’avrà riaccompagnata a casa, torni qui e io le mostrerò tutto ciò che deve sapere alla luce del giorno.»

Consuelo Jiménez indossava un vestito lungo di crepe blu e sandali dorati, le braccia nude abbronzate e muscolose: per lei la palestra non era solo un’occasione per socializzare. Lo fece accomodare nel soggiorno affacciato sul lingotto azzurro e liquido della piscina illuminata e gli porse un bicchiere di manzanilla gelida. Posò sul tavolino un vassoio di olive, aglio piccante e capperi, e si liberò dei sandali. Il ghiaccio nel suo tinto de verano tintinnò nel bicchiere.